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E    BERTA    FILAVA     

COME    E'   PROFONDO   IL   MARE

 

Dissertazione sulla produzione di senso in musica leggera. Significato dei brani “E Berta Filava” di Rino Gaetano e “Come è profondo il mare” di Lucio Dalla

lucio dalla come è profondo il mare

Premessa

 

Quando si ascolta una canzone, i significati pervengono all’ascoltatore generalmente per via immediata, per sensazioni, per associazioni istintive o culturali che la mente di chi ascolta non fa in tempo a focalizzare, a realizzare coscientemente (perché il tempo del brano è generalmente più veloce dei tempi di elaborazione del pensiero cognitivo). Ma, se anche non si riescono a individuare, i loro significati arrivano, mettendo in moto assonanze, sensazioni, ricordi.

 

Arrivando a scomodare il modello cognitivista beckiano, possiamo ipotizzare che l’ascolto di un testo in musica induce, con i passaggi del testo ma soprattutto con l’ambiente emotivo suggerito dal contesto musicale, quei momenti automatici del pensiero che detto modello assimila al primo livello. Ma si deve precisare che, contrariamente al pensiero automatico, tendono a non raggiungere subito la piena consapevolezza, rimanendo generalmente sospesi in un limbo di significanza tra il conscio e il non conscio; ovvero incarnandosi gradualmente in spessori consapevoli di senso via via che l’ascolto si ripete e che l’ascoltatore riascolta il brano.

Spessori che sono fortemente mediati dal vissuto, dallo stato emotivo, dalle aspettative e dalle esperienze personali dell’ascoltatore, così che ciascuno che ascolta può leggervi legittimamente sensi e significati diversi da quelli di chiunque altro.

 

Si intendono, con la presente dissertazione,  scorrere le sollecitazioni semantiche inserite nel testo e nella musica di questi due brani, scelti in via esemplificativa proprio perché di scarsa comprensibilità immediata eppure densi di significanze pregnanti,  qui affrontate nell’ordine con il quale esse appaiono sulla scena di ogni singolo brano, consapevoli che nulla vi è di definitivo e che la seguente esposizione non può che essere viziata (vizio d’origine, peccato originale) appunto dal vissuto, dallo stato emotivo, dalle aspettative e dalle esperienze di chi scrive.

Questo semplice esercizio permette di portare a nudo alcuni dei meccanismi sollecitatori di significati utilizzati, più o meno consapevolmente, dai due autori.

rino gaetano mio fratello è figlio unico e berta filava
analisi musicali
armonia
melodia
rino gaetano
rino gaetano a sanremo
musica pop anni 70
la lana e l'amianto

prima analisi

e Berta filava

 

Proveremo ad analizzare i vari livelli di significato del testo di questo brano partendo dalla più ovvia delle domande: ma che voleva dire l’autore, il geniale quanto sconvolto Rino Gaetano, con questo testo criptico? E il testo, in che relazione sta con la musica del brano? L’apparente nonsenso del testo appartiene ad una fase di delirio onirico o è il frutto, invece, di tecniche della comunicazione peraltro disimpegnate con navigata padronanza?

 

Per iniziare, poniamoci il problema iniziale (e fondamentale) di ogni ascoltatore al suo primo approccio a questo brano: chi era Berta.

Già: chi era? Che si sa di lei? Cosa suggeriscono le parole, con i loro inconsci rimandi, le loro consapevoli o inconsapevoli relazioni?

Ma prima ancora, prima di iniziare a rispondere al quesito, sul chi, che cosa bisogna fare mente locale sul luogo (musicale) dove ci troviamo (e dal quale i significati partono) , sul dove e sul quando, poiché il senso, in una canzone, parte, dall’immediata percezione di un ritmo, una tonalità, un timbro, una linea melodica, parte cioè dalle prime battute, che precedono il testo e già ci proiettano dentro un ambiente, dentro un panorama, dentro una prospettiva.

Partiamo quindi dall’humus musicale del brano: che si vede nelle prime note?

 

Scanzonatura, sfottò, presa in giro, non può essere altro che questo l’irriverente giro del basso synth anni ’70, reso così “pop” dagli ordinari anzi banali salti di 4a, di 8a, di 2a  e marcando l’accento tetico (in battere) quasi fosse una caricatura….

 

[figura a lato]

 

…Cui si aggiunge il tocco di triangolo (un triangolo dopo il synth bass!) a dare il senso dell’irriverenza.

 

La canzone scanzonata è banalità musicale allo stato puro, irridente storiella da bar, presa in giro, priva di ogni artificiosa complessità, tonalità do maggiore, la più ovvia che si può, tempo allegro 120, quello standard di avvio per metronomi e tastiere, accordi del riff più semplice che c’è DO FA SOL ripetuti costantemente (armonicamente I°- IV° -V° cioè tonica, sottodominante, dominante, pausa sospesa che sottintende unacadenza V-I) e si riprende uguale. Accordacci da parrocchia, una schitarrata a vanvera.

 

[figura a lato]

 

 

Il canto si inserisce sulla pausa musicale del basso, in levare del II movimento, prevalentemente articolato per gradi congiunti discendenti, al massimo terze, ben appoggiate sulle due note finali, con l’anticipo della penultima strascicato sull’ultima, subito interrompendosi fino alla battuta successiva: un inciso melodico di breve respiro, spezzato e strascicato, come interrotto e ingessato da una grande sofferenza che non fa parlare, ma mancano i pianti e i singhiozzi, allora forse è un parlare come sotto gli effettì del vino, loquacità etilica, manca solo di sentire l’alitosi alcolica della voce narrante.

 

[figura a lato]

 

Dato il contesto musicale, il testo fa faville, trattandosi della storia (carica di apparente nonsenso e banalità) della Berta che filava. Poniamoci finalmente la domanda iniziale: chi è Berta.

 

Berta è una ragazza; non è un uomo, si chiama Berta! E nemmeno è vecchia, visto che nel proseguo del testo flirta con due e rimane incinta. E che fa? Fila. Filava la lana.

Ha un nome retrò, non attualissimo (nemmeno negli anni ’70), non è Paola, Teresa, Maria, Jessica, è di tradizione germanica, presente nelle campagne lombardo venete e nei cantoni svizzeri, fra mucche e massaie, oppure in tutta Italia nel frequente suffisso Roberta, del quale diviene il diminuitivo familiare, e suggerisce quindi una ragazza in una certa estrazione e condizione, sicuramente popolare, quasi sicuramente contadina. Senza contare che non sta prendendo l’autobus, né comprando un rossetto né giocando a ping pong al bar del quartiere (come usava negli anni ’70), tutti nomi e azioni che avrebbero suggerito ben diversi scenari. No, lei fila la lana.

 

Ma, coercitiva nemesi, la Berta che fila la lana innesca un rimando semantico al detto popolare, che non son più i tempi che Berta filava, il cui significato è che si viveva meglio in tempi passati rispetto a quelli odierni,  dove si hanno maggiori esigenze. E qui si affonda nella notte dei tempi, potendosi originare il detto dalla rocambolesca avventura della futura sposa di pipino il Breve, la Regina Berta, madre di Carlomagno, che si rifugiò presso contadini per un certo periodo mantenendosi con il filato domestico. Vi è un bel quadro di Albert Anker del 1888, a Losanna, con la Regina Berta che fila tra arcolai e fusi attorniata dalle giovani ancelle. Tutto questo chi ascolta non lo coscientizza immediatamente, ma qualcosa gli scatta, un certo non so che di arcaico, di proverbio popolare, quando la Berta filava, com’era quel detto? Resta nell’aria un non so che di si stava meglio quando si stava peggio, o comunque un sapore di saggezza antica e popolare, corollario dei tempi che non son più quelli (che Berta filava).

 

La Berta che fila la lana vive però nell’adesso della canzone, anno ’70, ma chi fila più la lana con fusi e arcolai negli anni ’70?! La famiglia a cui appartiene Berta è davvero retrò, mantiene una economia rurale ormai largamente superata nei centri dell’industrializzazione, tipica di una famiglia arretrata, che se lo è nell’economia, lo sarà anche nei valori, infatti tiene la povera ragazza chiusa in a casa a filare. Sta filando per il vestito del santo, la famiglia quindi è inserita in quegli ambienti rurali e tradizionalmente religiosi dove i santi sfilano con statuette vestite e ricamate, come ancora potrebbe essere, nel ’70, un villaggetto del mezzogiorno o delle profonde valli alpine.

 

Vispa, tuttavia, la Berta in questione (e lo dimostrerà fra poco nella gravidanza cum pater incertum) fila sì il vestito, ma con la lana e l’amianto. La contraddizione nell’ascoltatore è subito colta perché i vestiti dei santi sono ricamati in tessuti ricercati e oro, ma invece che argento e lino, oro e seta, il vestito è fatto in lana e amianto. Se la lana può essere una sobria e popolare canottiera per un familiare nei campi, l’amianto che c’azzecca? Siamo solo alla quinta battuta della strofa e il cervello d’istinto rimugina che ci faccia l’amianto. Perché l’unico vestito di amianto che viene in mente sono le tute ignifughe utilizzate (all’epoca) dai lavoratori delle raffinerie, degli altoforni e simili, oltre che dei vigili del fuoco. Lo scenario quindi si apre sull’industrializzazione pesante, si disvela un mondo di sudore e di calore, l’operaio in tuta all’altoforno (o al petrolchimico), la manodopera sfruttata, l’addetto alle mansioni rischiose delle lavorazioni più esposte.

 

Però non si parla di nessun operaio, ma di una santo, che andava sul rogo, quindi siamo per la seconda volta spiazzati, santi sul rogo sono i puri bruciati come eretici perché si erano opposti al potere oscurantista della Chiesa, la mente ha un flash sui vari Giordano Bruno, al limite a Girolamo Savonarola, per non dire dei riformati, degli albigesi, dei dulciniani, gente che per la coerenza ai suoi principi (di santità) è poi finita male; ma rogo contemporaneo potrebbe anche essere l’altoforno,  sembra di essere davanti a un gioco di parole ad un esercizio speculativo e invece no, la vicenda è assai reale, vi sono sensazioni e odori forti, c’è perfino la carne che brucia, gli urli, gli strazi, perché il santo che andava sul rogo mentre bruciava urlava e piangeva, la cosa si fa didascalicamente drammatica e reale, ma il dramma è sconfermato dalla musica, che si ostina su un elementare IV-V-I (accordo di sottodominante, dominante e tonica) con un irriverente disegno di basso synth (imitazione slap).

 

La più banale, indifferente e giocosa disco music accompagna strazi orribili e morti medioevali. Se Rino voleva sconcertare e provocare qualcuno, c’è riuscito! Anche perché la prima strofa chiude con la grottesca entrata in scena della gente, del popolo, popolo autentico, popolino che parla romanesco, la gente che diceva an vedi che santo.

 

Questo elemento incardina la vicenda sotto un aspetto pubblico, davanti al rogo c’è la gente che in dialetto commenta e attesta, sentendo urlare e piangere, la santità dello straziato. Immagine bellissima, perché non solo il popolino non muove un dito a favore del disgraziato che brucia sul rogo e del quale riconosce la purezza e la giustizia, anzi addirittura la santità, ma sembra perfino godersi il cruento spettacolo come al tempo dei gladiatori e dei leoni nell’anfiteatro. La gente è lì, in massa, non interviene, commenta l’acclarata santità data dal fatto che poi il santo effettivamente brucia e con essa ne accetta anche la inevitabile sorte; perché la sorte dei puri, dei profeti e degli idealisti è sempre tragica.

 

Così, con leggerezza, Rino ha appena analizzato secoli di storia disvelandone il segreto su un allegro giro dominante tonica e un basso slap.

 

L’apparente “non sense” situazionale cela tuttavia molte altre sorprese. La storia si dipana, come la lana sul fuso, ma ben lontano dagli orrori della storia, planando su un quotidiano contemporaneo e riparte dagli ormoni della Berta che sì filava, ma con Mario e con Gino. Hai capito te?! Vispa la Berta! Eccome se fa all’amore, altro che fusi! Avòglia gli antiquati genitori a tenerla all’arcolaio, quella  se la fa con due allo stesso tempo, trionfo della disinibizione della condizione femminile, libera di piacere e di godere senza tabù, altrimenti destinata a rimanere nel medioevo di un padre padrone in un paesino arretrato del mezzogiorno.

E chi sono Mario e Gino? Due ragazzi comuni? Due tra i lavoratori dell’altoforno? due onesti proletari? Due sicuramente più vigliacchi di Berta, però, perché non sono in grado di (o non vogliono) accettare la responsabilità della paternità, e dal sesso libero traggono alibi per il disimpegno familiare. E nasceva il bambino, che non era di Mario e non era di Gino. Peraltro questo della viltà del genere  maschile rispetto alle responsabilità delle relazioni è un tema caro a Rino, ci ritornerà con grande humor nel 1979 con  “Resta vile maschio dove vai”.  La Berta è dunque ragazza madre, piena di difficoltà ma piena di voglia di gestirsi da sé il suo futuro. Sai che colpo per gli oscurantisti, genitori e parroco! Emancipazione. Libertà. Trasgressione. Dignità della propria condizione. Gioia di vivere. E mamma. Questa è Berta nella seconda strofa. E la storia è tutta qui.

 

Sul rogo della pubblica condanna sembra che ci finisca, quindi, proprio Berta, suo il falò dei commenti cattivi, lei la vittima che piangeva, lei e l’infante che essa cullava cullava. Ma la musica che c’è sotto, ingenua e derisoria, continua, ci dice anche un'altra cosa. La musica esprime la vitalità e l’ostinata determinazione della protagonista che il testo sottintende senza esplicitare, mentre  l’irriverenza musicale dello slap traduce l’allegra dissacrazione dei valori tradizionali che Berta realizza con la sua condotta.

 

È una cosa musicalmente semplice, questo dice irrevocabilmente la musica; quindi è una cosa altrettanto semplice, se si vuole, l’emancipazione della condizione femminile. Basta avere la voglia di vivere e di suonare. Consapevoli che i puri e gli audaci saranno osteggiati e forse condannati, ma chi se ne frega, la lotta è il sapore della vita; consapevoli che il popolo e le masse non saranno mai d’aiuto sulle difficoltà quotidiane, ma a noi Berte non difetterà il coraggio; consapevoli che quei poveri lavoratori rimarranno esposti allo sfruttamento e alle tute d’amianto, così sarà sempre la vita, eppure tutto ciò da solo non riuscirà a toglierci l’allegria, non potrà mai fermare la gioiosità irriverente del nostro synth bass in slap.

 

lucio dalla
come è profondo il mare
anni 70
fondamentale do nota do
siamo noi siamo in tanti
siamo i cattivi pensieri i gatti neri
gran cacciatore di quaglie e di fagiani
caccia via queste mosche
dio o chi per lui sta cercando di dividerci
farci del male farci annegare
con la forza di un ricatto l'uomo diventò qualcuno
innalzò il povero
l'urlo diventò un tamburo solo in mezzo al mare
fu scaraventato in un palazzo in un fosso
con qualche danno per i brutti
pesci dai quali discendiamo tutti assistettero curiosi al dramma collettivo
il pensiero è come l'oceano da fastidio anche se muto come un pesce

seconda analisi

come è profondo il mare

 

Facciamo il solito processo logico, o più precisamente utilizziamo lo stesso metodo, con unaltro brano: Come è profondo il mare, prima canzone del settimo disco (album, come si diceva allora) di studio di Lucio Dalla, registrato nel 1977  (studi RCA a Roma); è il primo disco in cui Dalla è autore anche dei testi; è il primo brano del disco; insomma, è il primo “Dalla”

 

Poniamoci dunque la domanda: chi è, dov’è, che sta facendo la voce narrante della canzone? Che si può conoscere dagli elementi musicoletterali? Cosa suggeriscono le parole e la musica, con i loro inconsci rimandi, le loro consapevoli relazioni, all’ascoltatore?

Altra cosa sarà poi (lo abbiamo già detto in premessa, ma è meglio ripetere) quello che ciascuno ci coglie, ci vede, ci riconosce, perché interviene il filtro percettivo del proprio vissuto, delle proprie esperienze, dei propri bisogni emotivi, a selezionare, e di più, ad aggiungere, a creare significati e senso, ma questa è ovviamente una (meravigliosa) variabile soggettiva che qui non è dato approfondire e che forse si chiama semplicemente “poesia”.

Partiamo quindi, prima che dal testo, dalla musica, intesa come l’elemento creatore principe del senso perché matrice di significati emozionali che si impongono prepotentemente e d’imperio su tutti i significanti di senso contermini,  ma che svolge altresì anche una seconda e determinante funzione, quella di potenziamento, di amplificazione delle gamme dei significati cognitivi insiti nel testo, sapientemente inspessiti dall’artista secondo l’opportunità appunto del momento musicale (nell’economia del brano).

 

In primis, l’armonia. Siamo in do maggiore, tonalità quasi banale, scevra da tensioni e  complicazioni, anche se subito impreziosita dalla raffinata dissonanza melodica della settima maggiore (7+) dell’inizio, che risolve su un ricco ma riposante VI grado Lam7, da intendersi ovviamente però  come la fondamentale arricchita Do6 (è un gioco armonico che sarà sfruttato più volte da Dalla: si pensi a “balla balla ballerino” 1980), in un economia armonica della strofa che non si muove mai dall’accordo di Do.

[figura a lato]

 

Si trasmette immediatamente pertanto, fin dal primo accordo, un ambiente armonico con una certa attenzione speculativa, ricercato, non usuale eppure semplice, apparentemente un tranquillissimo do maggiore, innocuo, quotidiano, pacifico.

 

In secundis, il tempo, l’agogica degli accenti.  Una pulsazione andante lenta, riposata, senza ansia e fatica, come una passeggiata sfaccendata e contemplativa.

 

Infine il timbro. Un fischio. Timbro dello sfaccendato per antonomasia.

 

Si impone all’ascoltatore (seppure non ancora a livello consapevole) già dalla seconda battuta, l’idea di un osservatore sfaccendato al passeggio, e indipendentemente dalla possibilità che sia la voce narrante o qualcuno che passa lì vicino, suggerisce un luogo, un momento, dove è possibile starsene sfaccendati, liberi da ansie di tempi da rispettare, appuntamenti, impellenze di lavoro, preoccupazioni quotidiane: un luogo, un momento, dove un soggetto pensatore ha il tempo e la possibilità di pensare, di osservare, rilassato. Un vacanziere? Un filosofo? Un metalmeccanico? Un pensionato? Un vigile urbano? Un pescatore? Non importa “chi”, importa “come”, importa quel “senza ansie di tempi da rispettare”: la stessa canzone non rispetterà i tempi e le simmetrie canoniche e scivolerà libera da vincoli formali, perché è appunto pensiero libero, non regolamentato da formalità, osservatore esterno, fuori da ogni tempo e da ogni pathos.

 

Chiunque sia, sta passeggiando con le mani dietro la schiena, oppure sta bevendo un caffè seduto ad un tavolino, sul lungomare, o su una spiaggia assolata, magari deserta, magari piena di ombrelloni, ma sicuramente davanti al mare. Al “mare”.

 

Perché “mare” è la parola più frequentata dal testo, centro del titolo, centro della canzone, costante punto di ritorno, onnipresente e ineludibile centro di gravitazione semantica, quindi su questo chi ascolta non può avere dubbi: mare, siamo davanti al “mare”.

 

Questo non lo dice la musica, lo impone il testo. Ma la musica lo conferma e lo amplifica.

Il tempo musicale è risacca di onde sul bagnasciuga.  La sensazione della spuma della risacca, del frangersi dell’onda sulla battigia, è data dal levare anticipato del basso che precede il terzo accordo della battuta:

 

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Poi, la risacca vera e propria, l’arretrare dell’onda che si spenge, è suggerito dal contraccolpo in sincope sempre del basso sul 1 e 3 movimento.

 

Il sole picchia forte, è solleone, fa luccicare le onde pigre in mille bagliori accecanti e istantanei.

 

I bagliori accecanti e fluttuanti sulle onde sono espressi con la tastiera in timbrica hammond al termine dell’introduzione, quando viene riproposta alla fine del brano, con i gruppetti veloci costruiti sulla sensibile (settima maggiore).

L’anno prima, 1976, lo stesso meccanismo (piccole pennellate di settima) era stato usato da Rino Gaetano in “Sfiorivano le viole”, anche qui al mare, d’estate, per i bagliori sulle onde in hammond.

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La costruzione armonica della strofa rafforza un punto fermo che si volta nelle diverse direzioni da una postazione fissa, per tornare sempre a guardare dritto davanti a se. E' una armonia inchiodata ad una nota (il Do) dalla quale si alza per un giro di accordi che mantengono però fissa questa nota nel basso, come il mazzo dei venditore di palloncini che fluttuano a mezz'aria ma che sono legati ad un unico ancoraggio fisso a terra e per questo restano sempre lì.

 

Il punto fermo è la fondamentale do, che il basso non abbandona mai, costruendo una sequenza armonica “do”centrica, che dalla fondamentale mai si sgancia, mai si muove, eppure spazia su un armonia indotta come un osservatore che muove lo sguardo: do, dosus2, dosus4, dosus2, di nuovo do, e ricomincia (cioè: do, do2, do4, do2, do), che camuffa un funzionale armonico di cadenze evitate assai efficace I°-II°-IV°-II°-I°.

 

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L’efficacia consiste nel fatto che, pur tornando alla fondamentale, al grado I di tonica, il discorso non è concluso, manca la cadenza, il riposo (l’equivalente del punto nella punteggiatura, della fine del periodo) e  il ragionamento prosegue (come effettivamente prosegue nel testo), dentro un insieme di virgole senza un punto.

E non è forse questo, proprio questo, l’andamento tipico dei pensieri in libertà?

 

Solo nel “ritornello”, in realtà un semplice “refrain” di poche battute, dove il testo afferma “com’è profondo il mare”, si ha la cadenza, peraltro plagale, di sapore spiritual blues, con un bel IV°-I° (accordo di fa che scende su accordo di do). Questa è l’unica cadenza, questa è l’unica affermazione (musicale), l’unico punto fermo: “come è profondo il mare!”

 

Ed ora, compreso l’ambiente musicale, avventuriamoci nel testo letterale, di sorpresa in sorpresa.

 

La voce narrante esordisce con SIAMO NOI, SIAMO IN TANTI, e quindi non è voce ma portavoce, appartenenza di gruppo (ma siamo nel 1977 ed ha ancora un senso parlare di “coscienza di classe”), è comunque l’espressione di una collettività “siamo in tanti” dal numero imprecisato ma sicuramente cospicuo, moltitudine dalla consistenza incognita, in fondo dove c’era una volta la coscienza di classe c’erano anche le masse…Poi il significato letterale comincia ad oscillare tra i terroristi e i gatti randagi, tra gli anarcoinsurrezionalisti (che nel ’77 erano cosa seria assai) e i piccoli felini urbani, CI NASCONDIAMO DI NOTTE, dunque qualcosa di oscuro, di nascosto che agisce nell’ombra, PER PAURA DEGLI AUTOMOBILISTI, che schiacciano i gatti a decine sulla statale, DEI LINOTIPISTI che pochi sanno essere operai tipografi specializzati (professionalità oggi scomparsa) che con una specie di macchina da scrivere componevano le rotative di stampa, quindi chi si muove nell’ombra teme la stampa, il quarto potere, l’opinione pubblica, l’alta velocità e la guida in stato di ebbrezza, SIAMO GATTI NERI, che non si vedono perché neri nella notte, capaci di attaccare la preda all’improvviso, con traiettorie libere, per noi imprevedibili ed incontrollabili, o anche capaci di essere inavvertitamente pestati e graffiarti (tutt’al più uno stinco, perché felini sì ma troppo piccoli per essere un pericolo), SIAMO I CATTIVI PENSIERI, le brame oscure sepolte dentro ciascuno di noi, la voglia di far male, capace di sbucare all’improvviso, pronta a balzare sulle nostre coscienze nei momenti bui…ma non cattivi pensieri grandi, eh, gatti, piccole cattiverie capaci però di mimetizzarsi, proprio perché piccole, nella notte delle periferie urbane e delle periferie della coscienza.

 

E NON ABBIAMO NIENTE DA MANGIARE.

Attenzione! Questa cosa oscura, questa moltitudine non quantificata, "noi", abbiamo fame. E la fame spinge ad attaccare per uccidere, lasciandosi dietro ogni scrupolo ed ogni prudenza, perché è istinto primario. Leggasi: “siamo ormai pronti ad aggredirvi, perché disperati”

Ed eccoci alla svolta, il refrain, il punto, l’affermazione, la verità appena scoperta che si sente il bisogno di comunicare al mondo: COME E’ PROFONDO IL MARE!

Si disvela ai miei occhi il mare, che ho davanti, e che adesso con un intuizione colgo nella sua immensità percependone però non la vastità, ma l’abisso, la profondità, l’oscuro incognito!

Apparentemente non c’è alcun nesso con quanto detto fino ad ora, eppure l’affermazione non ci coglie di sorpresa, ci sembra appropriata, in contesto, e ci sembra tale perché finora tutta la costruzione musicale ci ha detto “mare” “sto osservando il mare”.

Senza la musica, il testo qui sarebbe apparso illogico, innaturale, i gatti neri non stanno nel mare. Ma questi sì. E questo mare è un mare profondo. Sono i gatti neri, imprevedibili, dell’abisso! E subito lo ripete COME E’ PROFONDO IL MARE, e con la ripetizione l’elemento liquido materiale assume connotati metafisici, l’abisso marino si proietta nell’abisso dell’animo umano. Perché una tale profondità non può che essere colta da qualcosa di altrettanto oscuro e profondo, altrimenti la sua superficie ondosa ne celerebbe la percepibilità. E se un elemento è così profondo, allora quante cose, cose belle, cose brutte, cose orribili, può ricoprire e nascondere? La vertigine improvvisa di chi coglie l’immensità delle cose ancora incognite, l’immensità dell’ignoto.

Questo la voce narrante, nel ritornello, dentro un apparentemente innocuo do maggiore, sta indagando, sta pensando con libero pensiero sfaccendato: sta cogliendo verità da sempre sotto gli occhi di tutti eppure mai prima còlte.

 

Ma è l’ora della seconda strofa.

Occorre sdrammatizzare, alleggerire un carico semantico davvero insostenibile per una canzonetta, cosa che puntualmente si realizza nella seconda strofa, dove la voce narrante è infastidita, anzi arrabbiata, perché vuole riposare e non ci riesce per via delle mosche. Il che  suggerisce di nuovo, e quindi conferma, che siamo dentro una situazione di tempo libero, dove si può riposare all’aria aperta, è vacanza, è estate, ci sono le mosche (che d’inverno non ci sono).

Il narratore arrabbiato (perché vuol riposare, perché non ci riesce, perché ci sono le mosche) è decisamente pigro. Non si affatica a risolvere il problema “mosche”, pretende che il babbo gli risolva il problema.

BABBO, CHE ERI UN GRAN CACCIATORE DI QUAGLIE E DI FAGIANI, CACCIA VIA QUESTE MOSCHE CHE NON MI FANNO DORMIRE CHE MI FANNO ARRABBIARE.

Già il termine “babbo” è fuori contesto. Noi in Toscana non lo percepiamo, ma per chiunque abbia ascoltato questo brano in un'altra regione d’Italia, quel “babbo” si è imposto come un colore inusuale, carico d’ironia: in Italia e a Bologna (ambiente culturale di origine di Lucio Dalla) o a Treviso o a Roma (le città dove è poi vissuto) non si dice “babbo”, che è un termine esclusivamente toscano. Tuttavia solo il termine toscano, con quel suo bellissimo duplice scoppio della labiale B, ha la giusta solennità per il verso. Provate con “padre, che eri un gran cacciatore…” o con “papà, che che eri un gran cacciatore…” … non funziona, troppo mistico il primo, troppo leggero il secondo,  solo con “babbo” si raggiunge il giusto colore, la scelta poetica è in questo caso anche una scelta fonetica.

 

Il babbo gran cacciatore di quaglie e di fagiani (l’uccellagione tipica della caccia tra i coltivi padani) è proprio un omaggio al padre di Dalla, al secolo Giuseppe Dalla direttore del cittadino club di tiro al volo.

Fuori contesto poi è il nesso, che genera istintivamente ilarità, tra il gran cacciatore di selvaggina dall’infallibile mira e la caccia alle …mosche! Il gustosissimo nonsenso è così lontano dalla linea metafisica della prima strofa, con la quale apparentemente non c’incastra proprio ma proprio nulla,  da generare incoercibilmente un contrasto grottesco, che chiuque ascolta non può fare a meno di realizzare.

Riaffermare quindi, immediatamente e senza dilungarsi oltre (la seconda strofa è più corta della prima, si sviluppa su tre misure invece che su cinque), il ritornello “Com’è profondo il mare”, è ora necessario, sia per ritornare al tema, sia per sottolineare l’incongruenza di questa seconda strofa.


La terza strofa può adesso essere lanciata, dopo che per due volte si è preparato l’ascoltatore alla profondità. E con lei le successive, ad esplorare e disvelare ogni profondità, ogni abisso, ogni incognita. Com’è profondo il mare, è l’ora di vedere cosa c’è là sotto, di scoperchiare il mare e dare un occhiata. La musica continua a suggerire l’idea dell’osservatore pacato e fermo che  tutto vede senza muoversi dal suo posto a sedere, osserva per diletto, per puro piacere, forse per passatempo, là davanti al mare, d’estate, in vacanza, in un tradizionale do maggiore del quale non abbandona mai la fondamentale.

Quindi come si scoperchia il mare? L’indagine, l’esplorazione, non è materiale, è speculativa, non si scende negli abissi con un batiscafo, li si indagano con il pensiero libero di un libero pensatore, davanti non c’è l’elemento liquido, ma la storia degli uomini e del cosmo, con i suoi perché, sui quali il vero pensiero, quello che esula dalle frasi fatte degli altri e si basa sull’osservazione diretta delle cose (cose come il mare, la società, la storia, l’universo), può finalmente aprire squarci di verità.

 

Infatti si proporranno presto, già da questa strofa, squarci di verità sulla storia contemporanea, oscurata e relegata nelle profondità da un regime bigotto e perbenista (ma che mostra finalmente, negli anni ’70, le prime incrinature e paure), per portarli, quegli squarci, alla superficie delle coscienze. Le stesse cose che, dette in piazza, generavano la carica della polizia sui manifestanti, camuffate con la dovuta ironia, possono essere proposte senza alcun danno dentro un LP a 45 giri...ma solo dentro una innocua e inattaccabile canzonetta in do maggiore, dove il ritmo, l’armonia e il contesto musicale dichiarano che non c’è nessuna rivalsa politica, non si vogliono scuotere le coscienze, annunciare proclami, non si vogliono fare insurrezioni, si vuole soltanto gustare un caffè al tavolino del lungomare d’agosto.

 

E` INUTILE NON C'È PIÙ LAVORO, NON C'È PIÙ DECORO.

Un frase fatta, il lamento dei vecchietti al bar, delle donnine dal parrucchiere, non c’è religione, i giovani d’oggi non hanno più rispetto, dove s’andrà a finire…è inutile, cioè nulla cambia, va tutto come sempre, il solito lamento, le cose vanno male come sempre male sono andate, è inutile, ci sono sfruttatie  sfruttatori e noi siamo della prima risma e gli altri non ci permettono di migliorare, e tengono bassi i livelli di decoro e di lavoro perché reddito e dignità sono anche capaci di far alzare la testa alle masse dei diseredati.

 

DIO O CHI PER LUI STA CERCANDO DI DIVIDERCI.

La cosa micidiale è quel “Dio o chi per lui”, che esplicita una delle analisi che, dalle profondità,  il libero pensatore affacciato sul mare (sulla storia, sull’umanità) ha colto, scoperchiando la superficie delle frasi fatte e delle analisi precotte di regime, ha colto un fatto e lo comunica alle coscienze altrui.

“O chi per lui” vuol dire, in 4 paroline, due concetti enormi: il primo è che potrebbe non esistere Dio o se preferite che dietro Dio potrebbe non esserci Dio, ed esserci,  invece che un principio creatore, un gruppo di persone che, monopolizzando il marchio “Dio”, indirizzano gli uomini a tenere determinati comportamenti (per la paura di Dio o per il devoto rispetto della divinità), e ciò ovviamente per veicolare in nome di Dio oppressioni altrimenti insopportabili per l’uomo. In nome di Dio, o di chi per lui, non sono stati forse compiuti i più atroci crimini di massa della storia?

La seconda, conseguenza della prima, è che “Dio” è una funzione, un soggetto che ha un ruolo davanti agli uomini, non è un principio creatore, e, se tale funzione può essere sostituita ed interpretata da una pluralità indefinita di persone (un gruppo, a noi ignoto, di potenti prepotenti), o chi per lui, e noi non sappiamo chi ci c’è dietro “Dio”, è certo che a quei potenti “serve” qualcosa che funzioni da “Dio”davanti agli uomini per ottenere i loro scopi. Per costoro “Dio” è una funzione, quel qualcosa che serve per qualcos’altro. A volte, al posto di Dio, si usa, con la stessa funzione, la Nazione, la Razza, la Giustizia, ma certo niente è efficace come Dio per  muovere le masse contro altre masse.

 E che cosa fa l’entità che detiene il vero potere supremo sul mondo, cioè Dio o chi per lui?

“Sta cercando di dividerci”. Dividi et impera, è cosa nota, lo sfruttamento sussiste fintanto che gli sfruttati sono divisi, è una necessità assoluta del vero potere dividere gli uomini. E chi divide? Noi! Torna il “noi” di “siamo noi, siamo in tanti”. Quindi siamo noi, siamo in tanti e stanno cercando di dividerci.

…“Cercando”!. Vuol dire evidentemente che Dio o chi per lui non ci è ancora riuscito. Altra verità nascosta nel profondo del mare: non ci sono ancora riusciti! Siamo nel ’77. Oggi avrebbe scritto che ci hanno diviso proprio per bene, ci hanno sdraiati, asfaltati, annullati, ma allora il grande processo storico era ancora in corso, quindi stavano “solo” cercando di farlo. E non solo quello. Infatti Dio o chi per lui sta tentando proprio DI FARCI DEL MALE, DI FARCI ANNEGARE, e questa di Dio che vuol farci del male, nel ’77 era un concetto non troppo frequentato, nemmeno dai liberi pensatori, è quindi una autentica profondità marina. Vuol farci del male davvero, eccolo là il “padre mostro”, che vuol schiacciare le sue creature, il Dio cattivo che sta cercando (cercando) di farci del male, il Cronos divoratore dei suoi stessi figli, ma attenti, non è Dio, è Dio o chi per lui, il concetto non vuole essere blasfemo, vuole disvelare il disegno maligno di quei potenti così malvagi che si sono perfino  impossessati (arbitrariamente) della persona di Dio.

E che male sta cercando (cercando) di farci? Di farci annegare! Di soffocarci nel mare, nell’oscuro profondo del mare, quella cosa che la canzone ci ha già suggerito essere il nostro habitat, il luogo dei gatti neri dell’abisso… cavolo! Vogliono eliminarci usando la nostra stessa oscurità, vogliono soffocarci sotto il peso delle nostre stesse coscienze, ambizioni, malvagità. Il testo della canzone ci prospetta sullo sfondo un’altra grande verità: la profondità dell’anima umana, la sua complessità, la profondità dei suoi lati oscuri, i mostri che vi possono sopravvivere negli abissi dell’animo umano.

 (nota: Sia chiaro che tutti questi significati sono solo una possibilità di quelli che possono essere colti istintivamente da chi ascolta. E che nessuno li coscientizza durante l’ascolto, arrivano rapidissimi al cervello per assonanza, per paralleli cognitivi, non ci accorgiamo di averli raggiunti, ma ci sono, arrivano in pochissimi istanti, li avvertiamo come presenze nitide  anche se non riusciamo a definirle. Questo processo di esplicitazione semantica, del tutto ridondante e professorale, non serve per godersi la canzone. Serve semmai a capire come viene costruita).

 COME È PROFONDO IL MARE

Profondo quanto basta da schiacciarci tutti. O da nasconderci tutti e così proteggerci. La partita è aperta. Giochiamocela!

Di seguito la lucidità dell’analisi storica contemporanea si fa ancora più evidente, esplicita.

 

CON LA FORZA DI UN RICATTO L'UOMO DIVENTÒ QUALCUNO.

Quando il popolo riuscì ad imporsi ai potenti, cosa successa non troppo tempo fa, lo fece con un ricatto, lo sciopero. Dammi nuove possibilità di sopravvivenza (salario) o io ti rovino, ti fermo la fabbrica, la merce, i profitti. Dammi nuovi diritti (diritti dei lavoratori) o io ti fermo le macchine e la produzione. Un ricatto, il più bello dei ricatti. Dammi un po’ del tuo potere, fammi diventare qualcuno. Ma fu una lotta terribile, titanica, SPALANCÒ PRIGIONI, e questo lo si capisce, presa della Bastiglia, libertà dei prigionieri politici, RESUSCITÒ ANCHE I MORTI, e io lo conosco un grande rivoluzionario che effettivamente lo fece, ma forse potrebbe più umilmente intendersi che coloro ormai deprivati di forze e di dignità, coloro che ormai erano morti per la storia, resuscitarono dalla loro oppressione e si affacciarono prepotentemente nella storia con le rivoluzioni (la comune o la rivoluzione d’ottobre o quella cubana, il tempo non è luogo in questa canzone).

 

BLOCCÒ SEI TRENI CON RELATIVI VAGONI, deliziosa sdrammatizzazione. I versi precedenti erano troppo pregni di significati, bisogna alleggerire, perché stiamo scrivendo il testo di una canzonetta, non un trattato politico. A cosa servì tutto questo enorme improvviso e imprevisto potere del popolo? A fermare sei treni, tutto lì. Beh, sei treni e relativi vagoni (“relativi vagoni”: bellissimo! Non fermarono solo le locomotive, dunque, ma anche annessi e connessi. Che fine ironia!). Coloro che dovevano fermare il treno lanciato della storia, fermarono sei treni con relativi vagoni. Pur sempre un inizio. E poi, chi è riuscito a fermare dei treni, magari poi riesce a fermarne degli altri, no? E ci risucì, per un poco. Per un attimo. Per un attimo solo, un istante, un nulla, ma ci riuscì: INNALZÒ PER UN ATTIMO IL POVERO. In verbo innalzare non è casuale: è una citazione dal Magnificat, sono le parole di Maria di Nazaret (altra grande rivoluzionaria): “ha innalzato gli umili, ha rovesciato i potenti dai loro troni, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore”. Durò poco, durò niente, ma l’uomo, diventato qualcuno, ci riuscì. Potrebbe quindi nuovamente riuscirci, questo sta scritto nelle profondità del mare!

 

Sì, ma dove fu innalzato il povero? A UN RUOLO DIFFICILE DA MANTENERE. Il sistema, l’economia di questo pianeta, basata su moltitudini sfruttate e minoranze agiate, non può sopportare il costo di popoli liberi. È difficile il mantenimento economico dell’uguaglianza e dei diritti per tutti, costa, non ci si fa, non ci sono risorse. 14 anni dopo, il crollo dell’Unione Sovietica appunto per questo, dimostrerà l’acutezza dell’analisi.

Altra grande verità scritta nel mare: questo pianeta non può fare a meno delle masse sterminate dei poveri e degli sfruttati. Io non sono di questa opinione, ma la canzone questo dice.

Ad un istante, quello dove il povero fu innalzato ad un nuovo ruolo nella storia, segue un eternità di dolore, lutti e frustrazioni. Accesa una speranza,  seguirà una glaciazione.

Cosa fa poi “l’uomo diventato qualcuno” al “povero innalzato”?

POI LO LASCIÒ CADERE A PIANGERE E A URLARE.

Non fece nulla per impedirlo, lo lasciò cadere, lasciò che la gravità della storia compisse il suo compito. Sedet in vertice, caveat ruinam! (Carmina Burana). Alle resuscitate speranze dei poveri non rimane che piangere e urlare, non gli rimane che la sofferenza, quella grande, quella vera, quella delle masse degli sfruttati. Il povero è SOLO IN MEZZO AL MARE, nessuno lo aiuterà, nessuno lo può aiutare, nessuno si curerà del suo pianto e delle sue urla, è solo, profondamente solo “in mezzo al mare”, nell’oscurità incognita dove la storia lo ha ricacciato. Com’è amara, a  questo punto, la profondità del mare in mezzo alla quale, solo, sprofonda il povero con ogni sua speranza.

COME È PROFONDO IL MARE.

La profondità come condanna definitiva e ineluttabile.

Sono tre secoli di storia, indagati con sconvolgente lucidità, e sono riassunti in una strofetta in Do maggiore.

Sì, eccoli i tre secoli di storia, vista dal punto di vista degli sconfitti, dei poveri, con i suoi momenti ciclici di lotta e di speranza puntualmente soffocati nell’orrore. Ciclicamente il povero si rialza, ciclicamente la storia si scuote, ciclicamente viene sconfitto.

Abbiamo lasciato il povero da solo a urlare naufragando nelle profondità marine, ma l’urlo del povero è seme di rivolta POI DA SOLO L'URLO DIVENTÒ UN TAMBURO, un tam tam, un segnale potente, ripetuto e amplificato E IL POVERO, COME UN LAMPO, improvviso, come folgore, prima non c’è niente, poi per un istante luce ed energia enormi dentro una tempesta, dentro lo sconvolgimento degli elementi NEL CIELO SICURO, sicuro e non scuro perchè il cielo, per il povero in lotta, è sicuro, come lo è il lampo che fiammeggia sicuro e spavaldo nel cielo nero, quando è il suo breve momento, il povero in lotta osa, non ha paura (i gatti neri hanno fame!) COMINCIÒ UNA GUERRA, anzi ne cominciò tante, e lo fece con decisione, nulla più da perdere, la disperazione da coraggio disumano alle masse, PER CONQUISTARE  QUELLO SCHERZO DI TERRA, i miseri, i reietti, vogliono impossessarsi della terra, di una loro terra, gliene basta poca, non sono egoisti, conquisteranno uno scherzo di terra, così poca che quando diranno che quella è la loro terra ai latifondisti verrà da ridere, non è una terra, è uno scherzo, una burla, nessuno può sperare di sopravvivere con così poca terra CHE IL SUO GRANDE CUORE (il soggetto è: il povero) DOVEVA COLTIVARE, perché al povero quello scherzo gli basta, è il suo sogno, è la sua speranza, ci proverà comunque a sfamarsi con quel poco che darà, il suo grande cuore (cioè la sua grande speranza e il suo grande amore) le doveva coltivare quelle poche zolle.

Chi conosce la storia dei piccoli contadini latinoamericani, riconoscerà molte delle cose e delle emozioni qui descritte.

 

COME È PROFONDO IL MARE

 

Ma, abbiamo detto, arriva subito la sconfitta, e di nuovo una sconfitta terribile, al povero che era riuscito a conquistarsi uno scherzo di terra

MA LA TERRA GLI FU PORTATA VIA COMPRESA QUELLA RIMASTA ADDOSSO,

neanche lo sporco nelle unghie, nemmeno la polvere sulla pelle, nemmeno un atomo di terra (di proprietà, di beni) viene lasciata al povero, niente, niente di niente, e ancora una volta niente, senza più speranze, senza più nemmeno la speranza di una zolla di terra, di un orto da coltivare, quando la fame sarà nera, quando i suoi figli moriranno di stenti,  il povero definitivamente vinto

 

FU SCARAVENTATO (da Dio o chi per lui) IN UN PALAZZO O IN UN FOSSO (servo o cadavere) NON RICORDO BENE (inceve lo sa benissimo)  POI UNA STORIA DI CATENE (fine di ogni libertà, di ogni diritto, di ogni rivolta) BASTONATE (violenza gratuita contro i poveri, gli operai, i manifestanti), E CHIRURGIA SPERIMENTALE. La chirurgia sperimentale, è noto (e subito richiama questo significato) fu esercitata dai nazisti su cavie ebree nei campi di sterminio. È la pratica più abominevole di disprezzo totale verso un altro essere. È il destino del povero,  come poi gli è andrà sempre a finire: rivolta, conquista di uno scherzo di terra, catene, chirurgia sperimentale.


COME È PROFONDO IL MARE.

 

Questa è la storia recente, signori, questo si vede negli abissi del mare, altro che sole dell’avvenire, altro che futuro di diritti e di progresso, guardate, guardate anche voi insieme a me laggiù in fondo venite a vedere…cosa ordinate, un lemonsoda?

Ed eccoci al dopoguerra, fino ai giorni nostri.

 

Dopo le rivendicazioni dei poveri, le guerre operaie, anzi intanto che queste ancora si combattono INTANTO UN MISTICO, mistico cioè uno che guarda all’aldilà, che toglie l’attenzione dall’aldiquà per spostarla a tempi futuri e promesse incerte, un furbacchione imbonitore di semplici, FORSE UN AVIATORE, uno abituato dal cielo a vedere orizzonti più vasti e che soprattutto conosce gli aereoplani ed i marchingegni della moderna tecnologia, SCOPRÌ LA COMMOZIONE, l’arma finale del dottor Goebbels, l’apparecchio che suscita emozioni, che trasmette emozioni, la stessa emozione a milioni di spettatori, che si emozionano insieme e allo stesso modo sullo stesso canale uniformando menti e sentimenti, superando conflitti atavici in una pacificazione commozionale

CHE RIMISE D'ACCORDO TUTTI,

tutte le fazioni avversarie, simboleggiate ironicamente da I BELLI CON I BRUTTI, ma una pacificazione che non sarà indolore per tutti, a qualcuno andrà un po’ meglio, a qualcuno un po’ peggio

CON QUALCHE DANNO PER I BRUTTI CHE SI VIDERO CONSEGNARE UN PEZZO DI SPECCHIO COSÌ DA POTERSI GUARDARE.

 

Ai brutti, ai reietti, agli emarginati, a coloro che non sono belli e rampanti ma mera tappezzeria sociale, va peggio, perché viene consegnato uno specchio affinchè possano vedersi per quello che sono, ed assumere così la consapevolezza che quello sono e quello resteranno. Un bello può diventare brutto, ma un brutto non potrà mai diventare bello. Un ricco può diventare povero, ma un povero non potrà mai diventare ricco. È bene che lo sappia, così ci risparmiamo un sacco di tragedie (vedi strofe precedenti). Eccoti lo specchio che ti riflette nella tua bruttezza, nella tua povertà. Le classi sociali (ed i sembianti estetici)  sono congelate, non c’è più spazio per salire la piramide. Sappilo. Anche questa è una delle verità scritte nelle profondità del mare.
COME È PROFONDO IL MARE. L’uomo è sconfitto.

 

Ma non tutte le creature lo sono. E certo, non abbiamo considerato le creature del mare!
FRATTANTO I PESCI, eccole, DAI QUALI DISCENDIAMO TUTTI, grande verità evoluzionistica che qui sottintende il concetto che tutti, anche gli sconfitti, siamo un po’ pesci,
ASSISTETTERO CURIOSI, AL DRAMMA COLLETTIVO DI QUESTO MONDO cominciano a scrutare i terrestri e la loro storia, il loro mondo, le loro lotte per la terra e le ricchezze CHE A LORO INDUBBIAMENTE  DOVEVA SEMBRARE CATTIVO. Questo verso è prezioso nell’analisi storica che sta svolgendo l’autore del testo. Spesso diciamo, osservando gli animali in natura, il leone che divora i leoncini, la mantide che si mangia il suo compagno, che il mondo della natura è cattivo. Ma non lo è, risponde semplicemente ad altre logiche che non sono logiche umane, tutte funzionali alla sopravvivenza di quella specie.

Anche la crudeltà dei predatori in natura non è cattiveria, è solo catena alimentare, appare cattiveria solo se vista da occhi umani. Così i pesci guardano noi, ed a loro il nostro modo di fare (di sterminarci con le guerre, di opprimere i poveri, di annichilirne le rivendicazioni, di lasciarli da soli a urlare) deve indubbiamente sembrargli cattivo… ma forse non lo è!

Forse è solo funzionale alla sopravvivenza della nostra specie!

Forse un mondo di uomini uguali che in maniera uguale fruisce delle risorse di questo pianeta, sarebbe la fine della nostra specie! Forse questo sistema di guerra e sfruttamento è in una certa misura inevitabile. Non è questo il mio pensiero, ma è questo il rimando semantico insito nel testo della canzone, che può arrivare nostre sfere di significanza.

 

E COMINCIARONO A PENSARE, i pesci, NEL LORO GRANDE MARE, rimuginando proprio come fa il narratore che vede il mare, con pensiero libero. Come il narratore. I pesci, dunque, “sono” il narratore. Chi narra la canzone ha cominciato a guardare e a pensare. Non dalla terra vedendo il mare, dunque, ma dal mare vedendo la terra stiamo analizzando la storia! COME È PROFONDO IL MARE.

La profondità del mare è la vastità di analisi di un pensiero libero!

E` CHIARO CHE IL PENSIERO DÀ FASTIDIO

(…non c’è bisogno di commentarlo!)

ANCHE SE CHI PENSA È MUTO COME UN PESCE,

cioè anche se chi pensa non ha la forza e nemmeno al voglia di protestare, ma semplicemente si accorge di come va il mondo, già questo accorgersi è potenzialmente un pericolo per i potenti, per Dio o chi per lui.

ANZI È UN PESCE,

ecco esplicitato in modo incontrovertibile che “i pesci” sono il narratore, chi pensa è un pesce, è proprio un pesce, per pesci nel mare si intendono, ora è esplicito, i liberi pensatori E COME PESCE È DIFFICILE DA BLOCCARE. Altra grande verità: niente può fermare il pensiero libero! Tutta la storia lo attesta, non c’è potenza criminale o dittatura bestiale che sia mai riuscita a stroncare il diffondersi di pensieri liberi nelle coscienze, neanche con le torture, neanche con le stragi,

PERCHÈ LO PROTEGGE IL MARE, (protegge il libero pensiero, il pesce, e qui "mare" è moltitudine immensa di piccole particelle che insieme sono massa oceanica).

COME È PROFONDO IL MARE. La protezione del pensiero da parte del mare, è la sua profondità vastissima, la moltitudine degli individui.

 

CERTO CHI COMANDA (Dio o chi per lui) NON È DISPOSTO A FARE DISTINZIONI POETICHE, ed ecco la potenza del pensiero libero: IL PENSIERO È COME L'OCEANO, NON LO PUOI BLOCCARE, NON LO PUOI RECINTARE. Molto pertinente l’esempio dell’oceano che non si può recintare! Sembrerebbe una grande grande speranza per noi (è chiaro che ormai siamo tutti noi ascoltatori dalla parte dei poveri e degli sfruttati). Ma la guerra continua, e siamo nel bel mezzo delle atrocità. COSÌ (loro, il potere, i vari  Dio o chi per lui) STANNO BRUCIANDO IL MARE, com’è possibile bruciare il mare? Eppure lo stanno facendo. Stanno facendo anche ciò che non è possibile, stanno distruggendo sistematicamente l’habitat dove si muovono i liberi pensieri. O almeno (siamo nel ’77) ci stanno seriamente provando. Ma l’habitat dove si muovono i liberi pensieri… è l’Uomo!

 

COSÌ STANNO UCCIDENDO IL MARE, 

com’è possibile uccidere l’Uomo, l’umanità intera? Eppure lo stanno facendo…Almeno 4000 testate nucleari attive delle superpotenze, pronte al lancio in qualsiasi momento, sono più che sufficienti per distruggerla (e almeno 7 volte di seguito). Evidentemente qualcuno ci pensa. Questa era una paura ancora più viva di oggi, nel ‘77

COSÌ STANNO UMILIANDO IL MARE (l’Uomo!)

COSÌ STANNO PIEGANDO IL MARE. (l’Uomo!)

Davvero un verso bellissimo. Questa è poesia! Al di là della storia contemporanea, tutta la condizione umana è sempre stata questa, potenti contro l’Uomo, da sempre… Questa è la verità che risale dalla profondità della storia.

Siamo ancora con il verbo in forma perifrastica attiva, essi stanno piegando, stanno umiliando, stanno uccidendo, cioè lo stanno facendo ora, adesso, l’operazione è in corso, non è ancora terminata, c’è ancora dolore da spendere… ma ciò può anche sottintendere che non è ancora completata, definitiva, che possiamo ancora resistere! Ecco cosa dice il testo sulla condizione umana e sulle sue prospettive di rivalsa.

 

Troppo complicato vero? Basta. Abbiamo riflettuto anche troppo. Finiamola. Andiamo via, torniamo alle noie quotidiane.

Arriva il fischiettio della linea di canto.

Ecco, finale, il fischio dello sfaccendato che se ne va. Fanno un caffè e una lemonsoda, il conto prego, vado a fare il bagno.

stanno umiliando il mare stanno uccidendo il mare
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