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avventura di un orologio rotto

 

 

Era un gran bell’orologio.

 Lancette fosforescenti, ovale zincato, 18 rubini. Ma era da sempre fermo sulle due meno dieci. Per la curiosa forma delle sue lancette, due braccini spalancati su dieci alle due, c’era come un allegro sorriso all’interno dell’ovale zincato, un sorriso dolce e delicato, ma con gli occhi furbi di due piccoli rubini ed i riflessi fluorescenti di un folletto di altri tempi. Chissà che lo spirito di un folletto non avesse davvero preso dimora tra le sue dodici tacche orarie. Era così bello che quasi non sembrava rotto. Ma rotto lo era, inchiodato da tempo immemorabile sulle due meno dieci, in quello sghignazzante sorriso che né le molle nuove né la perizia del vecchio orologiaio del quartiere avevano saputo rimuovere. Cosicché il nostro orologio rotto non serviva più a niente, e fu dapprima abbandonato in un cassetto, infine donato a lui, perché a lui, di sapere che ore fossero, non fregava proprio una mazza, e l’orologio gli piaceva così, sorridente com’era, perché lo metteva di buon umore.

 

  E come lo difendeva, lui, il suo orologio! Diceva che non era vero che non serviva a niente, perché vi era un momento durante la giornata, quando puntualmente si compiva il miracolo e tornava un orologio normale: alle due meno dieci in punto, non un minuto prima e non un minuto dopo, tornava a segnare il tempo come un qualsiasi orologio. Alle due meno dieci in punto nessuno avrebbe potuto distinguerlo da un orologio vero, alle due meno dieci in punto nessuno poteva più dirgli, per un minuto almeno, che aveva l’orologio rotto.

 

   Lui era un gran bell’ uomo. Corpo slanciato, capelli castani e mani grandi. Al polso un orologio, rotto.

  Era un insufficiente mentale, uno di quegli uomini un po’ ingenui ed un po’ poeti che (un po’ per amore, un po’ per idiozia) sorridono a tutte le persone che incontrano. Certi signori con un camice bianco, una laurea in violenza e la seconda casa al mare, dicevano di lui che aveva un quoziente intellettivo inferiore alla normalità, ma si guardavano bene dallo specificare cosa per normalità si intendesse veramente. Tuttavia, quando lui li incontrava, sorrideva anche a loro. Certi altri signori, sulla base di quanto avevano affermato i primi signori, gli donarono un cartellino con scritto sopra “invalido civile”, guardandosi a loro volta dallo specificare cosa fosse veramente valido per la  civiltà. Eppure, se li avesse incontrati di nuovo, avrebbe sorriso anche a loro. Incarcerato senza colpa in un istituto per idioti dove avrebbe scontato un immeritato ergastolo, quell’uomo dai capelli castani seppe di essere diventato ormai come il suo orologio, una specie di sorriso rotto quanto basta per non servire più a niente, e quello sarebbe stato il suo cassetto.

 

  Aveva però anche lui, come il suo orologio, un momento durante la giornata, il suo momento magico, quando puntualmente si compiva il miracolo e tornava ad essere come tutti gli altri uomini e poteva sentirsi vero. Era quando sorrideva ai suoi amici dell’istituto, altri tre idioti come lui, che puntualmente, alle due meno dieci, si ritrovavano nell’androne, e guardavano il grande orologio della parete diventare per un minuto come il vecchio 18 rubini da polso. In quell’istante, ogni giorno, come per miracolo: un sorriso, quattro sorrisi, un sogno.

 

  Negli altri momenti della giornata, salutava tutti quelli che incontrava (infermieri, inservienti, dottori...), ma nessuno gli rispondeva. Ci rimaneva male e gli venivano pensieri tristi. Non gli rimaneva che attendere l’istante magico. Quello che succedeva durante l’istante magico, lui lo spiegava ai suoi amici così: 

- Avete una donna? Bene, sarete amanti. Avete un miliardo di dollari? Bene, sarete ricchi. Avete un posto che conta? Bene, sarete influenti. Avete un ministero? Bene, sarete potenti. Se avete un sogno, però, siete uomini! Cosa credete: anche loro che non ci salutano, che non sono rotti come noi ed ancora servono a qualcosa, fanno i nostri stessi sogni. In fondo sono uguali a noi, cercano un sorriso, solo che non lo sanno riconoscere, perché non sanno l’ora, e non hanno un orologio rotto.

 

Avvenne poi che l’orologio rotto scappò dall’istituto. Quelli coi camici bianchi dissero che erano scappati loro e non l’orologio, ma lui diceva che era scappato l’orologio, si si, lui era solo andato a riprenderlo perché ci era affezionato, e gli altri tre forse erano solo affezionati a lui. C’era un infermiere nuovo di guardia al cancello quando gli chiese “mi è scappato l’orologio giù in cortile, vado a riprenderlo e fra cinque minuti sono qui”. Erano le due meno un quarto. Quando, dopo sette mesi tornarono da soli all’istituto, lui disse all’infermiere di essere stato puntualissimo, e gli mostrò l’orologio 18 rubini che segnava dieci alle due. Non seppero rispondere dove fossero stati in quei cinque minuti. Allora quelli col camice bianco gli chiesero perchè fossero tornati.

 

Lui rispose, sorridendo:

- Abbiamo sognato la libertà, come voi che servite a qualcosa. Poi abbiamo come voi sognato la felicità. Ma non c’è libertà senza un sorriso, e la felicità, senza sorrisi, non sa di niente. Speravo che quelli fuori sapessero farlo meglio di voi qui. Ma ho sbagliato, perchè la gente non sorride più, né quella qui dentro né quella là fuori. Sorride solo il mio orologio, che però è rotto, e solo alle persone rotte riesce a spiegare come. Là fuori fanno tutti finta di essere stati riaccomodati. Qualcuno fa finta perfino di servire a qualcosa. Credono di essere uomini veri ma non sanno nemmeno sognare insieme. Tanto vale farlo qui. Quanto manca a dieci alle due?

 

Era un gran bell’orologio, perché il suo tempo sorrideva sempre. Su quel sorriso un uomo dai capelli castani aveva costruito un sogno. Su quel sogno si tuffarono quattro uomini e forse un folletto fosforescente. I loro carcerieri, messi insieme a tutti i signori coi camici bianchi ed al mondo intero, non erano liberi come lo erano loro. E dicevano che era un orologio rotto!...

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