L'abolizione della Gravità
Ma la cosa che il popolo oppresso percepiva più grave era senza dubbio proprio la gravità. La forza di gravità, quella universale, quella della mela di Newton, sì, proprio quella. Non lo sfruttamento degli operai, non il lavoro minorile imposto ai loro figli, non il futuro di stenti al quale erano condannati dalle avide brame dei padroni, cose tristi ma in qualche modo dall’abitudine rese sopportabili, alle quali si erano rassegnati. Non potevano invece rassegnarsi a quella stessa forza di gravità che li ancorava sopra l’unico appoggio per loro sicuro, questa sì che gli era insopportabile, questa e non la miseria era per essi l’odiata condanna della terra, il principio newtoniano che li condannava inesorabilmente al suolo, che impediva a loro di volare, che faceva loro invidiare i gabbiani.
All’inizio, piccoli gruppi di intellettuali di sinistra teorizzarono la lotta alla gravità. Erano pochi, isolati, stenti, un’elite di studenti magri e zelanti di scarsa o punta risonanza mediatica, ma con l’ambizione di guidare le masse e di insidiare le massaie.
I gabbiani, pertanto, non se ne preoccuparono. Loro sapevano per istinto naturale che si può volare anche in costanza gravitazionale, e sfidare i venti e le altezze , ma che non basta all’intento il coraggio di lanciarsi nel vuoto. Servono ali robuste, capacità tecniche, posizioni di battiti e di code per governare il movimento nel vuoto. Servono millenni e millenni di lenta evoluzione della specie, non ci si può improvvisare liberi, gabbiano si nasce, non lo si diventa.
Tuttavia nel popolo, a forza di guardare i gabbiani, cresceva l’avversione alla più crudele delle leggi, un diffuso malcontento causò i primi scioperi, e la gente di tutta questa gravità ne incolpava la monarchia, eh già perché nel regno, come si credeva allora tra il popolo, tutte le leggi son volute dal re.
Poi il malcontento diventò insofferenza popolare, e poi ancora l’insofferenza diventò sommossa, ribellione aperta, insurrezione. E i gabbiani, divenuti il simbolo del privilegio del volo, concesso a pochi, negato ai molti, incarnarono nell’immaginario collettivo quella profonda ingiustizia sociale.
L’odio si rovesciò contro le povere bestiole alate, che furono catturate a migliaia, a centinaia di migliaia, e giustiziate sul posto. Oppure venivano loro troncate le ali, così che sperimentassero finalmente, pure essi, la condizione della gravità. Tutti i gabbiani furono sterminati durante la prima fase della rivolta, ma non bastò tanto orrore a placare la smisurata sete d’odio e violenza del popolo, no, l’avversione contro la gravità crebbe a dimensioni parossistiche. Allora la folla inferocita marciò contro il palazzo del re. Non era possibile che tutti i loro sogni fossero trattenuti in basso dalla vile legge di gravità, un’oppressione ormai intollerabile, retaggio di secoli bui che i nuovi lumi avevan disvelato falsi. La modernità esigeva che le coscienze (e non solo i gabbiani) volassero libere senza più vincoli in un libero cielo, per guadagnare la vastità dei panorami futuri. E tanto dissero e tanto fecero che alla fine il re cedette, e diede ordine al suo primo ministro di revocare la legge di gravità.
“Ma, vostra maestà, le conseguenze…”
“Abbiamo deciso (plurale maiestatis), così sia fatto”
“Ma vostra maestà, non è mai stato fatto prima d’ora…”
“Perciò sarà fatto adesso”
“Ma vostra maestà, cedere così, al popolo, una concessione tanto pericolosa…”
“Cedere per non decedere, e noi cederemo” (plurale maiestatis).
“Ma vostra maestà, il prestigio della corona, il futuro della dinastia,…”
“Mio caro amico, ma appunto per la corona dobbiamo farlo! In che altro modo possiamo (plurale maiestatis) agire? Il popolo sarebbe capace altrimenti di proclamare la Repubblica, già non vedete con quale ferocia là fuori grida e sbraita contro la tirannia della massa e del peso? Se non diamo loro soddisfazione, muoveranno a sgravarsi di ben altra tirannia, cioè la mia ovviamente, dunque meglio, molto meglio accontentar loro e lasciare che il loro furore si sgonfi contro obiettivi non dinastici!”
“dunque dobbiamo?...”
“Dunque devi, singolare, seconda persona, lo farai tu. In caso di disastro, la Corona deve sempre poter dare la colpa a qualcun altro…”
E fu così. E così fu.
Con squilli di trombe e rullar di tamburi, dal balcone reale fu scandito alla folla prima inferocita poi tripudiante il regal proclama che imponeva la tanto agognata abolizione della legge di gravità su tutto il reame.
La legge di gravità era abolita, soppressa, cancellata, con decorrenza immediata.
Pene gravissime erano previste per coloro che avessere continuato ad insegnarla alle lezioni di fisica.
Che festa, che gioia, caroselli improvvisati e balli e sambe si tennero nella capitale per tutta la notte, una baraonda di vecchi e giovani, donne e bambini, artigiani e contadini, ciabattini, fornai soldati e ingegneri, una sbornia colossale di allegria, trasversale ai ceti sociali ed alle generazioni, che invase le strade come se fossero stati vinti i mondiali, e tutti si congratulavano vicendevolmente e si abbracciavano e si baciavano nell’inveroconda promiscuità che accompagnò le migliaia e migliaia di anime sconosciute ma reciprocamente festanti ambosessi fino alle prime luci dell’alba.
All’alba, …cioè quando le mucche cominciarono a galleggiare sospese in aria a due o tre metri dal suolo.
I contadini che si erano recati nelle stalle per la mungitura se ne accorsero purtroppo troppo tardi, quando già anch’essi ormai fluttuavano in aria insieme ai loro secchi. E non c’era verso di tirarli giù.
Al far del mattino suonarono le campane delle chiese, già per aria sui campanili, nessuno s’accorse di una qualche differenza, lo sa il clero lo sa, come anticipare i tempi e cadere, anzi sollevarsi, sempre in piedi, a prescindere da qualsivoglia sconvolgimento sociale. E tuttavia più di un prete fu sorpreso a recitar messa coi piedi per aria e la testa in giù. Le beghine presenti agli offici mattutini le presero per semplici stravaganze del curato, e non se ne curarono, fin qui, più di tanto.
Ma quando al mattino si aprirono i cancelli delle scuole, e nelle classi maestre sbigottite si sollevarono in aria insieme a cattedre, banchi e quaderni, fluttuando impreviste verso i soffitti, e soprattutto mostrando gli inverecondi sottogonna ai discenti che gli nuotavano sotto, solo allora si cominciò ad avere la percezione del disastro.
Che fu senza precedenti. Perché le coscienze non si erano ancora evolute per il volo. Finalmente libere da vincoli, al massimo galleggiavano. Si staccavano sì da terra, ma non riuscivano, non potevano allontanarsi troppo dagli abissi, terrorizzate da tanta libertà non volevano perdere la rassicurante certezza di un orizzonte limitato, conoscibile, entro il quale, e non oltre, muovere le loro passioni e le loro speranze. E restavano lì, sospesi.
Tutto ciò che non era saldamente ancorato al suolo, ma solo appoggiato, comincio a librarsi a mezz’aria, galleggiando fra gli uno e i cinque metri circa da terra, e senza più appoggio cominciò a dirigersi secondo il vento del momento, leggero, etereo, privo di peso, privo di baricentro, privo di verticalità, ruotando sui propri assi in infinite, lente ed armoniose capriole.
Cani e gatti, mariti e mogli, milanisti e interisti, vecchi e bambini, topi, borse, zaini, cavalli, carrozze, cappelli, zittelle, ombrelli, gelati, libri, ventagli, chiavi inglesi, clarinetti, bulloni, abat-jour, specchi, divani, caffettiere, locomotive, zappe, incudini, suocere… tutto si sospendeva nell’aria in un gigantesco brodo aeriforme che occupava la fascia fino ai cinque metri di altezza dal suolo.
Qualcosa volava anche oltre, più su, fino a dieci, venti, cinquanta metri, perfino fin sopra le nuvole, per poi planare nuovamente in basso, ma la stragrande maggioranza delle persone, degli animali e delle cose rimaneva compresa nei quattro o cinque metri di prossimità, scontrandosi reciprocamente con lente e involontarie piroette, incapaci di governare la propria rotta, la propria velocità di spostamento o il proprio asse, come se fossero palloncini gonfiati di elio, ma senza le storie tese, con urti incessanti ma leggeri e senza fisiche conseguenze.
Qualcuno provò a nuotare. Effettivamente, facendo lo stile a rana, si riusciva a governare un poco il movimento, avanzare nella direzione voluta, con molta difficoltà, però, specialmente se controvento.
Tirarsi con le braccia ai lampioni stradali fu inutile, come scendevi a un metro le gambe andavano in alto, spinte da una gravità negativa, e non c’era modo mettere piede a terra.
Bere diventò un problema, si doveva stappare la bottiglia, vedere che direzione prendeva lo spisciolìo della bevanda e inseguirla con la bocca spalancata, ma spesso era lo spisciolìo ad andare più veloce. Non vi dico poi per fare pipì e pupù, che si sapeva da dove uscivano, ma non più dove andavano.
L’assenza di gravità era logisticamente insostenibile.
Già a mezzodì la folla, anzi la nuvolaglia, inferocita più di prima, cominciò a nuotare verso il palazzo reale dove si erano incatenati, per non volare via, il re e i suoi ministri.
Alle due del pomeriggio una moltitudine isterica e disperata che copriva tutta la capitale cominciò a chiedere ripetutamente, a pretendere, infine a implorare, la revoca dell’abolizione della legge di gravità.
Il popolo si fece vieppiù convinto che una qualche gravità che lo inchiodasse al suolo per sempre era assolutamente necessaria, che anzi quella che c’era prima era poca, e scatenò i suoi rappresentanti e tribuni perché pretendessero dal re non solo la gravità antica, ma anche maggiori e ben più gravosi pesi, che di volare nessuno ne aveva più voglia.
Il re licenziò il primo ministro, sul quale furono scaricate le colpe del disastro, e con gran pompa e squilli di trombe e rulli di tamburi, adottò nuovamente la legge di gravità, con la canonica accelerazione di nove virgola otto metri al secondo quadrato, proprio com’era prima, non un decimale di più, non un decimale di meno.
Fu così che, finalmente, ormai a pomeriggio inoltrato, il popolo tornò con i piedi per terra, a mungere vacche anch’esse tornate pesantemente al suolo, a spingere aratri per faticose zolle, a muover macchinari di pesante ghisa nei duri turni di lavoro alle acciaierie, alle tessiture alle miniere, e quello gli bastò, volontari schiavi deprivati per sempre di ogni anelito al volo.
Il suolo tornò a brulicare di vita e di fatica, in una terrestre orizzontalità di perenne rassegnazione.
Solo i cieli rimasero vuoti.
Non ci sarebbero stati più sogni a solcare le azzurre altezze dell’infinito.
Non ci sarebbero state più speranze a fare capolino, di tanto in tanto, fra le nuvole.
Niente avrebbe mai più saputo volare libero.
Laddove prima c’erano i gabbiani, ora non rimanevano che ciminiere e smog.