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da grande volevo fare l’astronauta

 

 

di Alberto Rossi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Da grande volevo fare l’astronauta. Esplorare pianeti diversi, camminare sulla luna, speronare il futuro e affondarlo, come un pirata. Volevo impallinare di scientifica curiosità i nuovi mondi, studiare le forme di vita aliene, e perché no, parlare con loro.

Beh, allora pensavo che sarebbe stato difficile, ma mi sbagliavo. Il fatto è che nel futuro, poi, mi ci hanno sparato davvero, e anche se tutti fanno finta di essere nel presente, io lo so che non è vero.

È successo tutto diversi anni fa. O almeno credo. All’epoca vivevo nel presente. Nel mio presente, gli anni ottanta. Non credo che sappiate cosa erano gli anni ottanta, dubito che nel futuro ci si ricordi ancora di loro, ma credetemi, era un altro mondo! Un mondo terribile, inquinato, pericoloso, oggi impossibile anche solo da immaginare, un pericolo dietro l’altro: si fumava come turchi, si campeggiava al mare nelle tende, si andava in moto senza casco, due su un Ciao, si telefonava dalle cabine pubbliche con il telefono a gettoni e per i robot c’era Star Wars. Niente airbags, niente smartphones, niente internet.

Poi un giorno, all’improvviso, mi sono ritrovato a pagare l’autostrada parlando con una macchina, davanti a me la voce di - ma pensa un po! - un robot. Un robot donna, sensuale, gentile, potrei anche dire molto educato per essere un robot, ma sempre robot era: una piatta, fredda, preregistrata vocina priva di emozioni, impossibile farle la corte, nessun ormone, nessun sorriso, una macchina di metallo. Non volevo darle i soldi, non mi fido dei metalli. Tre euro e cinquanta prego. Euro?! Vorrà dire tremilacinquecento lire! No, euro. Era cambiata la moneta. Inserire la tessera. Che tessera? Ma di che sta parlando? Inserire il denaro. Ah, ecco. Premere per ricevuta. Arrivederci e grazie.

Per la miseria! Avevo ragionato con una macchina! E avevo anche fatto quello che voleva lei. Semplicemente assurdo!

Un altro giorno, o forse il giorno stesso - non ricordo bene - ho chiamato il distretto sanitario per fare una radiografia e mi ha risposto un altro robot. C’era stata una invasione di robot. Ero circondato! Attendere prego. Attesi. Attendere prego. Attesi ancora. Poi, a causa dell’intenso traffico mi mandò a fare in culo. Nel presente avrei sicuramente trovato qualcuno con cui incazzarmi di malasanità, ma coi robot non c’era posto per la protesta. Per parlare con un addetto dovevo digitare sei. Attendere prego. Ma allora è un vizio! Spiacenti, non è possibile rispondere alla sua chiamata e in culo più di prima. Ero nel futuro.

 

Paola dice che non è vero niente. Che questa storia del futuro è una mia paranoia. Che sono sempre vissuto nel presente, solo che il presente, scorrendo gli anni, è andato evolvendosi con nuove tecnologie. Secondo lei non c'è mai stata nessuna frattura temporale.

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"Occipitale, piuttosto."

"E cioè?"

 

Trauma cranico. Un brutto colpo, un incidente stradale. E poi un subitaneo stato confusionale che ha lasciato il posto a frequenti amnesie. Insomma, ho rimosso tutto. Per questo mi sembra di vivere una discontinuità temporale. Pardon, occipitale. Almeno questo è quello che mi dice lei, mostrandomi ogni volta, con pazienza, le cartelle cliniche. C'è il mio nome, lì sopra, le diagnosi, i referti. E io rimango sospeso nel dubbio. E se le cartelle fossero state fatte apposta per farmelo credere? E se anche Paola fosse dell'equipe del futuro che fa l'esperimento su di me? Perché tutte le volte che glielo dico si mette a ridere?

 

Presente o futuro che sia, di certo è una fregatura. Tanto per cominciare è caro. Troppo. Ti accorgi di essere nel futuro quando tutto aumenta. Se i prezzi calano, vuol dire che la storia va all’indietro. Non c’è spazio nel futuro per la deflazione. Così un giorno che era pochi giorni dopo, ho chiesto perché il mio contratto telefonico era aumentato, volevo parlare con l’addetto alle vendite, chiamo l’azienda telefonica, altra macchinetta, altro robot, che rispondeva dalla Romania.  Credo infatti che mi abbia mandato a fare in culo in rumeno. Ero prigioniero dei robot.

Ma che cazzo era successo? Com’è che intorno a me erano tutti macchine? Dovevo indagare. Ricordo che ho passato giorni e giorni ad osservare attentamente il mondo. Almeno il pezzo intorno a me. Era qualcosa di agghiacciante. Le persone sembravano macchine, anche quelle che credevo vive si comportavano in modo strano, macchinoso, artificiale. Ripetevano tutti gli stessi discorsi, indottrinati da chissà quale Grande Fratello, o meglio robot programmati a sostenere dialoghi standardizzati, conversazioni innaturali, preconfezionate. O preregistrate. Non si sentiva più una sola idea originale, un solo punto di vista che stesse fuori dal coro, l’omologazione del pensiero era totale, pesante, violenta. Praticamente robotica. Potevi votare solo per Berlusconi. Potevi tifare solo per la Juve. Potevi comprare solo merci inutili. Se dicevi una cosa sensata rischiavi la galera. O quantomeno il licenziamento e la fame. Dire cose sensate in un mondo senza senso destabilizza il sistema, è rivoluzionario, e quelli se ne accorgono subito e trovano il modo di neutralizzarti. Con i loro algoritmi di ricerca non hai possibilità di farla franca. Impossibile non essere scoperti. Ogni accenno di originalità, ogni contrasto seppur minimo all'omologazione imperante, riuscivano a tracciarlo, e guai a chi era beccato in fallo. Percorsi rieducativi molto invasivi ti costringevano a rientrare nei ranghi: ratei dei mutui, ritmi di lavoro, spese fisse, malasanità, un calvario. Come era stato possibile tutto questo? Era così innaturale, illogico, inumano…

 

"E su questo hai ragione."

"Vedi?"

"Ma perché è il mondo che fa schifo, non il futuro. Anche il presente, anche il passato. Tu ora sei nel presente, e in effetti un po' schifo fa. Quando sarai nel futuro, credimi, farà schifo anche lì, perché questo è il mondo, non ci si può fare niente."

 

Lo dici tu. Per cominciare potreste riportarmi nel mio mondo. Non mi piace il futuro, qui succedono cose strane. Un giorno uno si sveglia e gli cambiano la moneta. Non ci sono più le lire. E neanche i franchi, i marchi, le corone… Un giorno mi dicono che c'è l’euro. E che cazzo è l'Euro? Dev'essere un esperimento di logica perché mi fanno applicare un tasso di conversione assurdo, 1 = 1936,27, col risultato che poi, con lo stesso stipendio convertito in euro, ci potevo comprare la metà della roba. Per scoprire che il tasso di conversione effettivo era 1 = 4000,00 ci ho messo sei mesi. Sei stipendi che messi insieme a malapena ne coprivano tre. Bella fregatura! E poi, ad esempio, c'è la tivù. Adesso la tivù ha duecentottanta canali, invece che i vecchi, sani, rassicuranti tre canali Rai. È ovvio che una simile evoluzione a onde medie avrebbe dovuto impiegarci secoli, millenni, non può essere accaduta in due o tre anni, le televisioni mica nascono così! 

È in questo modo, osservando queste cose che mi arrivano le intuizioni, un abisso, una vertigine, e tutto mi appare chiaro: questo non è il pianeta Terra! È un altro mondo. Ma com’è che ci sono caduto dentro? Non lo so. Non me ne sono accorto. Com'è possibile? C'è sotto qualcosa. Qualcosa di grosso, di molto più grande di me. Non capisco come sia successo, è un mistero, ma è successo.

 

"Non ti è successo proprio niente! Hai solo qualche problema di paranoia. È lo stress. Lavori troppo."

 

Sarà. Però vivevo la mia tranquilla vita nel presente, là negli ottanta, e ora tu guarda che casino. Devono avermi ibernato il cervello. Ma non tutto, che sennò me ne sarei accorto, solo una parte, mentre un’altra parte ha continuato a sognare nel presente. Ma certo, deve essere andata proprio così! E nel sogno mi è sembrato di trascorrere del tempo nel presente, alcuni anni forse, mi sembrava naturale perché era un sogno lungo, ecco sì, stavo dormendo e ho sognato, sognando mi hanno indotto l’impressione della continuità temporale.

 

"Occipitale. E non era una continuità, ma una frattura."

 

Macchè frattura! E quando hanno risvegliato il grosso della mia materia grigia, che io credevo di non essermi mai mosso da lì, che io credevo che fossero passati solo alcuni anni, mi sono ritrovato due millenni più avanti, nel futuro. Sì insomma, qui dove sono adesso - dovunque questo adesso sia.

 

"Vai, ci risiamo. Ora rientri in paranoia."

 

Hanno fatto le cose per bene, devo riconoscerlo. Facile per loro – chiunque essi siano – hanno a disposizione la tecnologia del futuro, tanta roba, cosa saremo, tremila, quattromila dopo Cristo, giù di lì, impossibile saperlo, sono solo uno nato nel 1963, mi fregano come vogliono, sanno fin troppo bene come direzionare l’attività onirica e darle continuità. Forse sono stato per duemila anni a sognare con gli elettrodi attaccati ad un computer, o ad un coso qualunque cosa sia, una sorta di direzionatore di sogni che chissà come si chiama: sognogrammofono? pitdreamaker? decerebrificatore?

Ho sempre pensato a questo possibile paradosso: che potendo sognare ogni notte con continuità una stessa vicenda personale, non si sarebbe distinto più la vita dalla realtà onirica. Basta fare sempre lo stesso sogno. Se cioè quella avventura giornaliera che si sogna la notte, avesse un suo coerente seguito la notte seguente, e via e via notte dopo notte, sarebbe come vivere due vite contemporaneamente. Magari in due epoche diverse. Mi immaginavo per esempio di andare a letto nella vita numero uno, dove magari ero sposato con tre figli, di andare a letto e di sognare cose, le cose che mi accadevano in sogno in una giornata della vita numero due, dove magari ero, che so, imbarcato con Colombo sulla Santa Maria, oppure monaco guerriero, nel medioevo, alle crociate. Al termine, nel sogno sarei andato nuovamente a letto, in qualità di monaco e di guerriero della vita numero due, e quale monaco alla fine della mia moniacense giornata avrei dormito, avrei sognato, avrei anzi sognato di sognare, sognando nel sogno. E nel sogno del monaco avrei sognato di essere di nuovo il padre di famiglia, tornando nel sogno della vita due al mattino seguente della vita numero  uno, riprendendo quella vicenda esattamente da dove l’avevo lasciata, e avrei fatto colazione e sarei andato al lavoro dopo aver portato i figli a scuola. Le solite incazzature d’ufficio, e via di questo passo, poi la sera buonanotte e rieccomi monaco con lo spadone, pronto ad andare in battaglia contro Saladino, e mi sarei ritrovato lì, a lustrare un’armatura senza sapere più cosa mi era vita e cosa mi era sogno, oppure se ero vero in tutt’e due le vite, o se ero mai stato vivo in almeno una di loro. Ma sarebbe stato solo un sogno.

Ecco, deve essermi successo qualcosa di simile. Sta di fatto che mi hanno risvegliato ed io non mi sono accorto che prima dormivo. E ho dormito per secoli, altroché, ne sono sicuro! Così ora, nel futuro, è come se fossi ancora nel presente. Mi sembra che siano trascorsi solo pochi giorni, ma la tecnologia intorno a me è avanti di millenni, sono dentro la fantascienza, sono stato deportato nel domani. O forse me lo sto solo sognando.

 

"Non te lo stai sognando, è che dopo l'incidente lo hai rimosso."

"Cosa?"

"Quello che ti era successo."

 

Il più delle volte mi persuado, e capisco che questa di essere stato scaraventato nel futuro è solo una mia paranoia. Tutte le evidenze logiche danno ragione a Paola, e ciò mi tranquillizza. A volte invece, mi rimane quella sensazione, ma a Paola non glielo dico. Così oscillo. Vivo la mia vita normale nel presente convinto che è davvero il mio presente, come tutti; ma ogni tanto mi affiora quella sensazione, la sensazione di  essere stato trasferito avanti di qualche migliaio d'anni chissà dove e in chissà quale frattura spazio-temporale.

 

"Occipitale!"

 

E va bene, spazio-tempo-occipitale, ammettiamolo pure. Non mi cambia nulla. Anzi.

Questa cosa non mi crea poi così tanto disagio.

Presente e futuro sono due mondi diversi ma, in fondo in fondo, abbastanza simili. Simili all’apparenza, ma con alcune piccole differenze. Secoli e secoli di piccole differenze, per l’esattezza. Differenze che distano fra loro un paio di millenni. Come minimo. E forse anche qualche anno luce, giusto due o tre galassie. Ecco di nuovo quella sensazione. Questo non è il mio pianeta, non è la mia cara vecchia Terra, no, non può esserlo! E sarà pure un sogno, o un sogno nel sogno, ma quello che succede qui sarebbe impossibile nel mio mondo, impensabile nel presente. Nel mio vero presente. Loro dicono che il mio presente è questo ma io lo so che non è così. Devo essere il loro esperimento. Mi hanno rapito e mi hanno portato qui per studiare come reagisco. Come se un Neanderthal scongelato dai ghiacci della Siberia fosse stato portato a New York per studiarne le reazioni. Ecco, io sono il Neanderthal a Manhattan. Peggio, sono il T-rex che passeggia per la Fifth Avenue. Ma com’è che non se ne accorge nessuno? E perché mi dicono che questo è il presente? Questo che per forza deve essere “dopo”, millennio più millenio meno, ma comunque nel futuro.

Giocano con me. Sono intrappolato in un gioco per piccoli alieni su una galassia lontana. Hanno ricostruito il mio mondo tale e quale ma è chiaramente qualcos’altro. Sono come Super Mario nel videogame. Tanto per cominciare, non ho più un soldo. Quindi devo saltare per prendere le monetine e i funghi. In questo videogioco ho una tessera magnetica. Nemmeno so quanta moneta ho in saccoccia. Pago digitando un pin ad un altro robot. Sulla Terra c’erano mani vere, che riscuotevano e ti facevano il resto. E spesso erano attaccate a un sorriso. Qui nel futuro - perché in certi momenti sono arciconvinto di essere stato scaraventato nel futuro - ci sono solo bip attaccati ai pin. Non mi piace questa sensazione. Quando il dubbio mi sale, il futuro è la mia prigione. Mi sento come inchiodato qui, solo apparentemente libero, comprendo che posso viaggiare, camminare, fare la spesa, ma imprigionato in questa epoca che non è la mia. Sono il loro Truman show. Come se tutti intorno a me recitassero. Sono in gabbia e non c’è modo di uscirne. Per forza, sono dentro il videogame!

Adesso, per esempio, vado a fare la spesa al supermercato. Ma non è come quando andavo a fare la spesa io. È decisamente più avveniristico. Hanno levato anche le cassiere. Che era sempre un piacere vederle, ragazze sorridenti, giovani e carine. Ora mi faccio da cassiera da me stesso, peso gli articoli e ne stacco il prezzo, mi dico quant’è e mi sorrido da me. Non è per niente sexy. Una sorta di autoerotismo, che però dà meno soddisfazione. Non mi intriga passare l’etichetta su un robot guardaetichette che poi mi dice quanto devo pagare in tutto. Circostanza peraltro indifferente, gli mostro una tessera magnetica e qualunque sia la cifra quello mi fa passare. Sennò il videogioco non può andare avanti. Basta avvicinare il mio rettangolino di plastica, bip, e nemmeno so quanto ho speso. Non serve saper contare nel futuro, contano loro per te e tu non conti più niente. Chissà di che sesso è il robot guardaetichette. Forse è maschio, perché non ha le tette.

Ho notato che non ci sono tette nel futuro. Non so perché. Dobbiamo esserci trasformati geneticamente. Guardo tutti gli esseri umani di probabile sesso femminile, ma niente. Sparite. Scomparse, o nel migliore dei casi ridotte, così mortificate che una seconda è grasso che cola. Dove sono finite tutte quelle meravigliose forme tornite e sode di giunonica sensualità? Le cassiere non hanno tette, le ragazze non hanno tette, scommetto che nemmeno le mamme hanno più le tette. Forse non ci sono più mamme. Forse qui nel futuro non servono. Magari non si allatta più. Chissà dove le avranno messe, un vero mistero. Ma si sa, i sogni sono pieni di stranezze. Figuriamoci i sogni doppi.

Ad esempio, quando ero nel presente per incontrare una persona dovevo vederla, esserci, stare lì. Ora invece sono circondato da ectoplasmi che appaiono in videochiamata sugli egofoni, si collegano simultaneamente e in tempo reale con mezzo pianeta, e fanno credere di essere veri intasando di futilità i social, ma non sono niente, non sono nemmeno persone, meri contatti virtuali. È questo il futuro? Un niente posticcio ricoperto di relazioni ipocrite e virtuali? E passi, ma almeno le tette!

Perciò, se da grande volevo fare l’astronauta, mi hanno accontentato. Vago i miei giorni esplorando le stranezze di questo pianeta. Faccio finta di stare al loro gioco. Non posso fare diversamente finché non imparo a uscirne. Sarebbe bello vedere Super Mario che fa sciopero, incrocia le braccia, scende dallo schermo e s’incammina, minuscolo ometto, per il salotto, inforca l’uscio di casa e se ne va. Via. Non si sa dove. Finalmente libero. A scalare il Tibet o a visitare il Guggenheim. Se solo sapessi in quale galassia sono! In duemila anni, chissà l’umanità quanti nuovi mondi ha colonizzato. Magari sono su Andromeda, o da qualche parte della Via Lattea, sempre che la Via Lattea esista ancora. Forse no, visto che non ci sono più tette.

Così questo è il mio (doppio) sogno: essere stato sbattuto nel futuro. Non è che sia un incubo. Per certe cose è piacevole il futuro. Super Mario si diverte a prendere le monetine, o almeno è programmato per farlo. Che poi non sono proprio sicuro di essere nel futuro. La mia è solo una sensazione. Magari è veramente una paranoia, come mi dicono tutti. Mi fanno perfino andare da uno strizzacervelli, che per 80 euro a seduta mi giura e spergiura che siamo nel presente, entrambi. Ma lui bara. È più vecchio e ringrinzito di me. Deve essere un fossile del pliocene. Hanno sbattuto nel futuro anche lui e nemmeno se n'è accorto. Almeno io la vostra tresca l'ho sgamata. È che mi sembra che la tecnologia di qua sia roba da fantascienza. E in questi momenti, quella di essere immerso nel futuro è la spiegazione più plausibile. Una sensazione che secondo loro è una turba ossessivo-maniacale, ma che in certi momenti per me diviene certezza. Quando ne parlo agli altri mi danno tutti di matto. Pensate anche voi che sono matto? Non siete obbligati a credermi. Ma che questo è il futuro non me lo leva di testa nessuno.

 

Devo fare finta, però, che il mio tempo sia davvero questo. Fingere, fingere, fingere, è la mia unica arma di sopravvivenza.  Sapete che succederebbe al Super Mario ribelle? Che non vuole più prendere i funghi? Che non risponde più ai comandi? Lo spengerebbero. Il videogioco si è rotto, addio Super Mario. Clic. Non mi va di essere spento. Meglio far finta di prendere i funghi. Che poi sono anche buoni, i funghi. Avete mai sentito i funghi trifolati alla maremmana? No? Non sapete cosa vi siete persi.

E poi c’è l’ipotesi B. Cioè che non c’è nessun videogioco e che la mia è, appunto, una paranoia. Vedo e mi immagino cose che non esistono. Non c’è nessun futuro, sono nato negli anni ’60 e ora siamo nel 2022, tutto qui, in mezzo c’è solo quarant’anni di scienza e di tecnica. Quindi, semplicemente, sono matto. E se ne parlo, per matto mi pigliano. Nel senso che chiamano la neuro, mi riempiono di sedativi, mi internano in una bella struttura per schizofrenici e mi rimpinzano il cervello con il prozac. Anche in questo caso, clic, e addio Super Mario. No, non devono saperlo. Non mi piace il prozac, nemmeno trifolato. E quindi, a maggior ragione, fingere, fingere e fingere che sia solo la normale evoluzione tecnologica degli ultimi decenni. Normale una sega!

Prendi la macchina che sto guidando adesso. Macchina!? Praticamente una astronave. Va con l’elettricità, si ricarica con un cavetto, parcheggia da sola, frena da sola, si accende da sola, ha un’intelligenza artificiale e parla. Vi dico che parla! State a sentire: “voglio il supermercato più vicino”. Prosegui diritto su viale per duecento metri, poi prendi la rotatoria. Sentito? Parla! È viva! Ma sei sicura? Sì, prendi la seconda uscita e immettiti in via Nino Bixio. Prosegui su via Nino Bixio per seicento metri. E ora? E ora la tua destinazione è fra cinquanta metri sulla destra. E manco a dirlo, sta proprio lì, perché ha ragione la macchina. Aspetta che parcheggio. No, lascia che ci penso io, tu vai a aiutare Paola con la spesa. E chi è Paola? La tua compagna. E a te chi te l’ha detto. Voglio dire, se anche fosse, ma come fai a saperlo se sei una macchina?

 

In effetti nel mio astronautico vagabondare per questo mondo (presumibilmente) extraterrestre, una delle creature più curiose nelle quali mi sono imbattuto è senz’altro Paola, l’alieno umanoide che mi fa da compagna.  Credo sia un umanoide femmina, ci sono vari elementi che portano a  questa conclusione. Uno, in particolare. Paola mi aspetta all’uscita del supermercato con la macchina per caricare la spesa, proprio come dice la macchina. Questi navigatori di nuova generazione ti controllano anche se non aiuti la moglie!  Cioè, non lo so se è proprio mia moglie. A volte ho la sensazione che nella mia vita ci siano dei buchi di trama. Delle clamorose discontinuità che non riesco a spiegarmi. Deve essere per via del sogno-grammofono. Avevo una moglie, me lo ricordo, ma non era Paola. Me l’hanno sostituita quando mi hanno portato qui nel futuro. Quella vera si chiamava Gloria, per sposarla ho dovuto portarla in chiesa, con l’abito bianco, un sacco di gente, invitati, confetti, pubblicazioni, un casino che non finiva mai. Usava così nel presente. Chissà che fine ha fatto.

 

"Lo sai benissimo che fine ha fatto, è che non te lo vuoi ricordare."

 

Abbiamo divorziato, credo. Non rammento bene. Sognavo. Quando mi sono svegliato qui c’era Paola.

 

"Non avete divorziato. È che non vi siete proprio sposati. È scappata il giorno delle nozze con una delle damigelle della sposa, passando dalla porta di dietro della canonica. E tu le hai inseguite come un pazzo inforcando la moto di tuo fratello, ma hai bucato lo stop."

"Mi sono fatto male?"

"Due settimane in coma al C.T.O. in lotta fra la vita e la morte. Poi ti sei risvegliato piano piano, e ti sei creato questa paranoia del futuro, ma secondo lo strizzacervelli vuoi solo rimuovere il passato, almeno quel passato lì. Beh, non è che ci hai fatto una bella figura."

"E tu saresti?"

"Paola, l'altra damigella della sposa. La sciagurata che ha avuto la sfortuna di volerti bene."

"Nonostante tutto?"

"Già. Bella sfortuna, eh?"

 

Con Paola non mi ricordo di cerimonie o casini, c’era e basta, stava accanto a me e ci sta tutt’ora. Lei dice che stiamo insieme. Boh? A me sembra che sia mia moglie. Nel senso che si comporta come tale. È una bella donna, dicono che abbia una cinquantina d’anni ma se li porta bene. A me però sembra una ragazzina di venti. E anche io mi sento un ventenne. Sono loro che dicono che ho 59 anni, eppure ragiono ancora come un ragazzino, penso come un ragazzino, e come un ragazzino cazzeggio divagando per pensieri stolidi con baldanzosa superficialità. Cos’altro potrei essere allora se non un ragazzino? Perché vogliono farmi credere di avere quasi sessant’anni? Ma mi prendono per il culo? Vuoi che non me ne accorga di quanti anni ho? E anche Paola, che non lo vedono gli altri quanto è bella? Quanta giovinezza emana ancora da lei? È meraviglioso starle accanto. Profuma di sandalo e ha la pelle morbida. Ma sono abbastanza sicuro che non è Gloria.

Devo sembrarle un po’ stordito, a Paola, sì insomma, un tipo bislacco, svampito, disorientato, lei lo vede che sono il T-rex sulla Fifth Avenue, ma non è colpa mia, certo che sono disadatto a questa vita, sono un carnivoro alto quindici metri estinto da sessanta milioni di anni, non sono a mio agio a passeggio fra le boutiques, non è proprio il mio habitat naturale, lo capiscono tutti che vengo da un altro pianeta, da un altra civiltà, da una cultura primitiva, che altro dovrebbe aspettarsi Paola da un neanderthal a Manhattan? Infatti non se l’aspetta. Anzi, tutto sommato la prende bene. Dice che gli svampiti le piacciono, perché gli uomini con la testa fra le nuvole sono un po’ poeti, forse un po’ bambini, ma da lassù vedono orizzonti più vasti, e a lei piacciono i grandi panorami. Panorami? Nubi? Ma che c’entrano con i T-rex? Paola alle volte parla un linguaggio incomprensibile, dice cose senza senso. Il che conferma che possa trattarsi una femmina. O forse quello incomprensibile sono io.

Quando parlo con gli altri abitanti del futuro dico spesso cose che li lasciano perplessi. Lei invece ci ride su, con una risata cristallina, limpida, sinceramente divertita, anche se io nemmeno capisco cosa la faccia sorridere. Però vederla sorridere mi piace.

Un sorriso sincero, solare, non si limita alla bocca, sorride con tutto il corpo, con gli occhi, col collo, con i movimenti delle mani, quando sorride la sua spontaneità è disarmante, stempera ogni mio dubbio, ogni mia ansia, ogni mia paura.

Di sicuro non è un robot.  È una specie di mamma (senza tette), di sorella, di amica, e anche di più. Qualche volta facciamo l’amore. Effettivamente l’idea che sia femmina appare plausibile. Saranno anche passati duemila anni ma l’amore, per fortuna, si fa sempre allo stesso modo. È bello fare all’amore. Mi piace, mi rilassa, mi fa sentire il centro del mondo, il centro del tempo, e anche se non sempre so su che pianeta sono e in quale millennio vivo, quando facciamo all’amore mi sento al centro di tutto questo, di ogni tempo e di ogni spazio, è come se il tempo e lo spazio prendessero davvero un senso, solo per un attimo, ma in quell’attimo li puoi toccare, lo spazio e il tempo, non più astratti, ma corporei, caldi, madidi, li puoi toccare, li puoi respirare, è come se anche il sentimento fosse materiale, solido, massiccio, il pensiero diventa animale, il cuore batte all’impazzata, il cervello accelera le scariche elettriche, e ciò mi fa sentire bene.

Ecco, mi è venuta una gran voglia di fare all’amore. Qui, adesso. Ma sono davanti al supermercato, e non si può fare. Nel futuro è vietato fare l’amore davanti ai supermercati. Puoi avere amplessi con le offerte speciali, puoi farti un’orgia con le promozioni, puoi stuprare il banco verdure, ma non puoi fare all’amore con Paola. Il futuro è una palla micidiale. Ma, giusto per proseguire questa storia, fingerò di essere ancora nel presente e non ne parlerò più. Voi capite no? Non vorrei che, sì insomma, clic. Sono troppo giovane perché qualcuno spenga il mio videogioco. Ecco lì Paola con la spesa da caricare. Scendo e l’aiuto. Così il navigatore non mi romperà i coglioni.

 

“Oh! Sveglia! Vedi di darti una mossa!”

“Eh!?”

“Forza, dammi una mano con le borse!”

“Ehm... sì, certo, scusa. Passami le borse. È che mi ero distratto.”

“Ma dài!? "

 

 

 

 

Alberto Rossi

Tobbiana, Montale 28.03.2022

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