San Franceschino

Quante volte, davanti alla necessità di dover scegliere, abbiamo scelto il "meno peggiore" di due mali. Si', anche noi, almeno una volta nella vita, confessiamolo, magari perché pressati dall'urgenza, magari per abitudine, ci siamo ritrovati davanti a due mali ed abbiamo optato per il minore,...ma certo, naturalmente, in buona fede, non lo discuto; perché comunque dovevamo andare avanti, perché davvero non era possibile fermare tutto, tornare indietro, ricominciare da capo...ci sono sempre mille buone ragioni a favore del minor male! Ci siamo cascati tutti, prima o poi! Siamo tutti complici del "pragmatismo". Ecco il nome della malattia mortale: pragmatismo! Un aspide che striscia nel sottobosco culturale di ognuno di noi, nascosto dalle felci agli occhi di chi è abituato a vedere grandi panorami, mimetizzato da una squamosa parvenza di razionalità che lo ricopre interamente così che non lo riconosciamo mai. Un infido serpe che striscia all'altezza dei nostri punti di appoggio al suolo, sempre schiacciato sulla realtà cosiddetta "concreta" , e che senza mai farsi accorgere, è sempre lì, pronto a mordere, pronto a spargere i suoi mortali veleni, pronto ad uccidere la speranza! Eccolo il cancro mortale che si è abbattuto sul nostro secolo e lo ha trascinato alla follia: il pragmatismo, proprio lui. E tutti noi, almeno una volta, siamo stati suoi complici.
Sì, quando davanti ad un progetto alto e lungimirante ci siamo rassegnati, pragmaticamente appunto, ad una politica di piccoli obbiettivi, di piccoli ma pratici passi, di modesti e forse insignificanti risultati solo perché, eh, si muovevano nella "giusta direzione" ed erano "effettivamente" realizzabili.
Ah, il realizzabile! Che follia! Che disastro! Può rassegnarsi all'insignificante progresso chi ha un progetto infinito senza fallire l'infinitezza di quel progetto? Può fare un piccolo passo chi deve percorrere gli anni luce, senza rimanere, agli occhi delle galassie, nello stesso punto?
Ve lo ricordate San Francesco? Gran bel progetto il suo, di quelli capaci di vivificare la storia e di rendere la speranza agli uomini: vivere il Vangelo così come era scritto ! Eppure anche lui ha dovuto confrontarsi col "pragmatismo" altrui. E fu solo grazie a Franceschino se.... come?...
Chi era Franceschino? Che non lo sapete? Suo cugino! Il cugino minore di Francesco, due anni più piccolo, suo compagno di giochi fin dalla più tenera infanzia e poi suo grande ed inseparabile amico.
I due si volevano molto bene, si può dire che fossero un cuore ed un anima sola.
Quando in Assisi fu la guerra contro Perugia, partirono insieme sui loro bei cavalli, pieni di sogni di gloria. Insieme caddero prigionieri, insieme furono riscattati.
Insieme nacque in loro la fiducia nel creato e l'amore per le cose semplici, ma Francesco, per carattere, era un po' più grande ed un po' più deciso di Franceschino. Oh, non di molto, solo un pizzico di più, appena appena, ma tutti e due erano animati dalla stesso sogno con uguale intensità ed uguale certezza.
Quando Francesco giunse, in quel magico giorno in Assisi, a spogliarsi in piazza per cominciare il suo nudo cammino verso Cristo, Franceschino si limitò alle mutande, pur comprendendo che quella volta la ragione era degli ignudi.
Certo, se oggi qualcuno si ignudasse sulla piazza di Pistoia lodando Dio, chiamerebbero la neuro. E non diversa era l'Assisi del duecento con le sue piazze benpensanti, dove i due cugini furon dati per irrecuperabili mentecatti. Ora come allora il pragmatismo predicava la vestizione come attributo di normalità, lasciando la gioia e la fede come qualità affatto indifferenti alla sostanzialità della vita. Dove fosse poi l'anormalità del corpo nudo, lo sapevano solo in quelle benpensanti piazze, visto che la natura ha creato l'uomo senza vestiti, ma tant’è, su questo anche il grande Michelangelo avrebbe avuto da scontrarsi tre secoli dopo, quando drappi sovrapposti censurarono le nudità del suo Adamo (quello famoso della Sistina!), proprio là dove era venerata quella Bibbia che senza ombra di dubbio attestava la nudità della adamitica creazione!
Non rimane che pensare che l'accusa di follia data ai due cugini risiedesse nel loro lodare Iddio!
Comunque, l'errore di Franceschino fu quello di tornare in mutande là dove Francesco se ne era fuggito nudo. Pazzo, invero, al pari del cugino (perché ora come allora si teneva per pazzo chi se ne fosse tornato in mutande per le piazze); tuttavia, rispetto alla pazzia di quest'ultimo, come dire: un po' meno peggio!
Fuori della società civile il cugino più grande vagava per le colline, lodando Dio; intorno alla società civile il più piccolo spiegava perché era giusto vagare per quelle colline benedicendo il Creatore. Entrambi fuori dalla razionalità, ma con il secondo, almeno, era possibile il dialogo. E cosa c'è di più pragmatico della possibilità di un dialogo? Magari tra sordi, pero' che si parlino, perché questa e' vera democrazia!
Ben presto intorno a Francesco cominciò a radunarsi uno sparuto manipolo di pazzi scatenati, interamente votati ad una inattuale e poco pratica povertà. Ma intorno a Franceschino, più vicino alla società, una folla di giovani di buone intenzioni, incuriositi dal nuovo messaggio, si aggrumava da tutta l'Umbria. La qual cosa, almeno all'inizio, spaventò molto di più le autorità che non il manipolo di francescani integrali, invero troppo radicali per poter far presa sulla gente. Una piccola élite intellettuale, finché non contagia le masse, non fa mai paura - dicevano (se poi le masse fossero state infettate, di aver paura non ci sarebbe stato nemmeno il tempo!); ma un messaggio edulcorato avrebbe anche potuto fare peso politico, un giorno, e minacciare con quel peso sbilanciato verso l'utopia il sano equilibrio della società.
Franceschino, il profeta in mutande, andava fermato!
Già, ma come? All'insigne arcivescovo di Assisi venne un'idea formidabile: Arcibaldo da Bevagna, venerato e probo domenicano plurilaureato, la cui saggezza ed il cui equilibrio erano universalmente noti, irreprensibilmente devoto a Dio, mai compromesso con il potere e perciò amato dal popolo, dottore della chiesa in odor di santità, l'uomo giusto al momento giusto.
La più grande qualità di Arcibaldo era la moderazione. E la moderazione era virtù pragmatica per eccellenza. Anche se in perfetta buona fede, il pragmatismo del venerato savio avrebbe ben presto sistemato, per la gloria di Dio, quel calderone di utopie militanti e sovversive.
Detto fatto, Arcibaldo fu prontamente inviato alla congrega di Franceschino, che lo accolse come un fratello e lo iniziò alla letizia del messaggio francescano.
Di quel messaggio il buon Arcibaldo rimase veramente entusiasta, e vi aderì in tutta buona fede, tuttavia non sarebbe riuscito mai a scrollarsi di dosso quella saggia e secolare moderazione che lo connotava da sempre: l'arcivescovo, questo, lo sapeva bene!
Ora, il metodo di Franceschino era quello di riportare nella sua numerosa congregazione tutto quello che il di lui cuginone sperimentava sulle colline con i suoi pochi pazzi, onde far comprendere alla più vasta cerchia di cristiani possibile come pazzi non fossero.
Ma ci furono dei problemini. Nel rinunciare a tutto (per esempio) e vivere poi di elemosine, c'era lo scoglio dell'affezione ai beni materiali per chi molti ne aveva. Mentre Francesco faceva rinunciare a tutto e subito - uno strappo troppo lacerante con la realtà, un autentico shock reddituale - Arcibaldo il pragmatico suggerì che tanto nobile scopo doveva si essere assolutamente perseguito, ma con gradualità! Fu così suggerita una politica di piccoli passi per arrivare, col tempo, alla povertà "effettiva" anche degli adepti più ricchi. Se il messaggio era universale, doveva poter essere reso accessibile a tutte le classi sociali, senza discriminazione di reddito fondiario. Senza contare che gli adepti ricchi erano spesso anche i più influenti, ed averli con sé , in definitiva, non avrebbe che giovato assai al movimento appena nato, bisognoso di appoggi e di protezioni per potersi affermare. Ma come faceva Francesco, un uomo così intelligente, a non capire queste cose?
Arcibaldo convinse Franceschino ad adottare una opportuna gradualità. La povertà sarebbe stata raggiunta per gradi da tutti, e non tutta insieme, lasciando il tempo agli adepti di abituarsi all'idea.
Chi possedeva più di 100 fiorini, ne avrebbe donato ai poveri non oltre 100 al mese, gradualmente liberandosi di quel fardello ma in maniera meno traumatica. Non era esattamente come nella parabola del giovane ricco, ma avrebbe sicuramente evitato la frattura con la potente corrente dei francescani pattisti (quelli che volevano scendere a patti con il latifondo feudale), i quali si dichiararono disponibili ad un graduale rilascio di plus-ricchezze da versare in fondi di investimento comuni (finalizzati alla carità, ovviamente!) i cui ricavati e dividendi (sugli interessi maturati) fossero a loro volta redistribuiti ai poveri.
Una soluzione geniale, quella di Arcibaldo, che conciliava la libera impresa (delle attività economiche dei fondi di investimento) con la povertà assoluta, facendole addirittura coincidere! Carità e mercato, liberismo e fede si coagulavano in una sola, sinergica, creativa finalizzazione di energie!
Una soluzione geniale e di sicuro effetto pratico, anzi, pragmatico! Nello stesso tempo che quei quattro pazzi con Francesco, laggiù a S.Damiano, a malapena erano riusciti a rimettere insieme le pietre diroccate di un vecchio chiesino scalcinato, i seguaci di Franceschino con i loro fondi comuni (che raccoglievano 100 fiorini al mese per ogni adepto maggiore di quel reddito, un capitale) fondavano un istituto commerciale e bancario specializzato in edilizia e conciatura delle pelli, che nel giro di pochi mesi aveva reso soltanto di interessi passivi e dividendi azionari più dell'intero capitale originario, divenendo leader nel settore conciario ed imponendo a tutta l'Umbria le tariffe della propria politica delle pelli. Così si poté versare ai poveri assai più di quanto si sarebbe versato con la diretta distribuzione delle quote, ed in più il capitale veniva sistematicamente incrementato (e con esso le possibilità di redistribuzioni future ai poveri), ed il prestigio economico della "ricerca della povertà" si imponeva sulle tradizionali logiche economiche, venendo ben accolto dal comune buonsenso. Oltre a ciò , furono realizzati grazie ai profitti dei fondi comuni di carità qualcosa come 18 chiese e 27 ospedali per i bisognosi, 13 punti mensa per i poveri e 2 lebbrosari, alla faccia di S.Damiano!
Venne poi il problema delle elemosine. Come si poteva chiedere l'elemosina sotto la pioggia invernale e per di più ringraziando sorella acqua?
Arcibaldo il pragmatico suggerì che ciò dovesse essere perseguito, ma con gradualità e raziocinio. Era inutile decimare i fratelli di broncopolmonite. L'elemosina si sarebbe fatta solo con condizioni atmosferiche favorevoli. Occorreva pur darsi una regola! Temperatura fra i 18 ed i 28 gradi, umidità nell'aria minore del 65 %. Ci fu un emendamento dei pattisti, e la temperatura limite massima fu ridotta a 26 gradi centigradi. Inoltre, in caso di pioggia, fu stabilito che le laudi a sorella acqua sarebbero state cantate sotto un tetto all'asciutto, in una delle 18 chiese o 27 ospedali della congregazione.
A Franceschino la cosa non piacque, ma si adeguò alla maggioranza, convinto che la democrazia fosse pur sempre un valore.
Scoppiò poi la prima guerra pan-umbra. Francesco implorava di villaggio in villaggio di non armarsi contro i fratelli. Ma il ministro della guerra del Consolato Umbro Occidentale, di concerto con i borgomastri delle città federate di Assisi, Gubbio e Perugia, scatenò una campagna di disinformazione contro i disfattisti anarchici di S.Damiano, che screditò davanti alla pubblica opinione l'intero movimento francescano, dipinto come uno stuolo di pazzi indemoniati dediti al feticismo, all'irrazionalità ed alle pleuriti, abbrutiti dalla miseria e dalla rinuncia della proprietà privata, pronti a demolire il sacro istituto familiare per creare congreghe conventuali infeconde, mangiare i bambini e isolarsi dalla storia e dal mondo.
Arcibaldo capì che la radicalità delle comunità di Francesco avrebbe ben presto travolto di discredito anche il resto del movimento, e gettato in cattiva luce la congregazione di Franceschino. Bisognava reagire immediatamente. Il grande pragmatico fece votare nella assemblea della congregazione un ordine del giorno per aderire alle imprese belliche che la patria richiedeva, ed inviare nell'esercito panumbro occidentale confratelli armati come volontari, a difesa della patria, certo, ma anche -disse - a difesa dei diritti del nemico, perché, se proprio guerra doveva essere fatta, meglio sarebbe stato se a farla fossero dei buoni cristiani invece che le terribili bande mercenarie lanzichenecche, le quali non si limitavano ad uccidere il nemico in battaglia, ma saccheggiavano i villaggi vinti in cerca di bottino, stupravano, torturavano, non avevano pietà per donne e bambini, si lasciavano andare ad ogni sorta di barbarie e di bestialità contro i civili.
Cose queste che i devoti confratelli mai e poi mai avrebbero compiuto, ed anzi, nel timor di Dio, avrebbero portato sicuro conforto nei villaggi sconfitti, avrebbero consolato le vedove, sfamato gli orfani, assistito gli indigenti (vestito gli ignudi, curato i malati, seppellito i morti eccetera eccetera), pie azioni quest'ultime quantomai opportune perchè, giudicando dal vigore e dalla forza dei confratelli armati, presto in quei villaggi di orfani, vedove e morti ce ne sarebbero stati in grandissimo numero.
E la carità doveva pur essere pianificata, perché fosse più efficace ed intervenisse la dove maggiore fosse il bisogno, secondo le moderne leggi del marketing e del mercato: cosa meglio di una guerra per operare la carità! Insomma, lo si era visto bene anche in Bosnia ed in Ruanda, terre di grandi massacri e di bande mercenarie, che in fondo un esercito pio era, in una guerra, di gran lunga il male minore.
San Franceschino, sempre più perplesso, si ritirò sui monti a cercare di capire (perché c'era un non-so-che che non gli tornava), ed Arcibaldo si recò con lui, imperversando ancora la guerra.
Ma quando Franceschino cominciò a pregare Iddio per ricevere il dono della sofferenza, attraverso le stigmate di Cristo, il grande saggio pragmatico si sentì di suggerire che queste andavano sì richieste, ma forse non tutte insieme, poiché un uomo non avrebbe mai potuto sopportare contemporaneamente tutti quei dolori alle mani, ai piedi ed al costato, che, se avevano ucciso un Dio, figuriamoci un uomo! E poi quel volere essere proprio uguale a Cristo, ancorché nelle sue sole piaghe, insomma, in fondo in fondo un po' presuntuoso lo era. Se proprio stigmate dovevano essere, secondo la moda del momento, almeno che fossero una per volta, e fu senz'altro suggerita l'opportunità di cominciare dal piede sinistro, e poi via, via, a rotazione, una piaga alla volta, avrebbe lentamente completato la sacra collezione di dolori divini.
Un passo alla volta, che diamine! Mica si poteva fare come quel pazzo invasato del carismatico cugino (proprio così disse: pazzo invasato). Eh sì, quel Francesco, con i suoi quattro idealisti al seguito, qualcuno avrebbe dovuto fermarlo, prima o poi, per il bene del Vangelo e dello stesso movimento francescano, prima che trascinasse la Chiesa intera verso un adesione al messaggio del Signore tanto coerente quanto impossibile da praticare; prima che scoraggiasse, con il suo duro aderire al Vangelo, ogni uomo di buona volontà dall'avvicinarsi a Cristo, e lasciasse la Chiesa priva di fedeli meno che santissimi, cioè senza nessuno. E quel qualcuno non poteva che essere lui, Franceschino, il suo più "prossimo" spirituale ed al tempo stesso parente, il suo "logico" erede alla guida del movimento.
Franceschino guardò Arcibaldo stralunato. Ma questi proseguì che, via, se ci si pensava bene, Francesco era troppo fuori dalla realtà, ed avrebbe finito, con la sua povertà formula "tutto e subito", con l'inimicare per sempre il movimento agli occhi dei più, e specialmente dei più che contano. Già il Santo Padre guardava con sospetto lo svilupparsi del francescanesimo, e tutto il Sacro Collegio Cardinalizio era quanto meno terrorizzato. Francesco doveva essere fermato, egli avrebbe dovuto fermarlo, prima che fosse troppo tardi, egli doveva ricondurre il movimento all'interno della società, di quella società a cui era stato mandato in missione salvifica con la sua nuova spiritualità, in principio intuita con merito da Francesco, ma poi completamente stravolta da un eccessivo rifiuto delle cose mondo, quelle vere, reali, pratiche, la vita di tutti i giorni con i suoi bisogni, l'economia, il diritto, le istituzioni dello Stato, la legittima proprietà, il libero mercato, il giusto profitto delle attività materiali...non si vive di solo pane e pleuriti! Il movimento doveva tornare “nella” società, non collocarsi “al di fuori” di essa. Doveva essere un messaggio “possibile”, non impossibile. Doveva essere comprensibile ai molti, non rifugio misantropico di un élite di invasati che, con l'assoluta coerenza, volevano mettere in pace la propria coscienza senza curarsi dei loro fratelli, meno forti di loro e quindi più bisognosi del loro “possibile” aiuto. Non basta essere santi, bisogna santificare il mondo! ...a piccoli passi, naturalmente, un po' per volta.
Franceschino guardò Arcibaldo anche peggio. Gli parve perfino che da sotto la tonaca gli spuntasse una zampa, una zampa d'oca.
Erano sulla vetta di una rupe, e Franceschino non ci pensò due volte. Capì che Arcibaldo altro non era che la pragmatica versione di Satana, lo spinse all'improvviso e questi cadde di sotto.
Un balzo di oltre cento metri. Di Arcibaldo non rimasero che poche membra sfracellate sulle rocce, un po' di sangue ed una tonaca ammaccata.
Franceschino, avendo ucciso un uomo, rinunciò su quella rupe a divenire santo, ma con quel suo santo gesto permise a Francesco la santità. Ora il suo buon cugino avrebbe potuto fare la sua strada senza più quella spina pragmatica conficcata nel fianco, travestita da ragionevolezza.
Di Franceschino, da allora, furon perse le tracce e la memoria, tanto che oggi nessuno più si ricorda di lui, che voglio però chiamare santo, San Franceschino, perché con il suo coraggio sventò il golpe moderato tramato dall'arcivescovo ai danni del movimento, e Francesco poté imporre, senza più ostacoli, la sua folle e dolce logica di amore, prendere in mano le redini del movimento e fare quello che fece.
E se proprio Franceschino del tutto santo non lo fu, pazienza: rimediò il cugino, che costruì santità per entrambi, e n'avanzò perfino per la Chiesa (che ne aveva tanto bisogno).