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La festa del patrono di Gravignana

 

 

 

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Vi scrivo, a nome di tutti, questo resoconto per informarvi dettagliatamente di come andò e di quel che successe poi.

Era, dunque, il giorno di Ferragosto. Come voi sapete nel paese di Gravignana per Ferragosto è festa grande. I confratelli della Compagnia in cappa nera sollevarono a spalla il vacillante baldacchino, quindi la statua del patrono cominciò a sfilare con la banda in testa in un tripudio di stendardi e litanie e bandiere e vessilli e  giaculatorie e paternostri: la processione solenne!

Per una sera il paesetto amenamente sperduto sulle montagne pistoiesi, tutto rintanato dentro la breve cerchia delle sue mura medioevali, ma che per la verità solo pochi vecchi dimenticati ormai abitano, rivive l’allegria di una volta: tutti i suoi figli emigrati ritornano per la festa, e tutti i turisti della valle salgono per vedere, tra saltimbanchi e chiccai, il lancio della mongolfiera che al termine della processione viene fatta salire al cielo in segno di pace e prosperità. Ogni anno più grande di quella dell’anno prima, per la maggior gloria del paese, secondo le decisioni del Comitato, composto ovviamente dagli impuniti festaioli della Pro Loco, vecchio Bretella in testa, infaticabili organizzatori di tombole e balli lisci, che nella festa patronale danno il meglio di loro anche se non si può certo dire che siano dei cattolici devoti.

Ma quest’anno poi doveva essere gigantesca per far crepare di rabbia quelli del vicino paese di Pontepietro, che avevano copiato l’idea e anche loro tirato su una mongolfiera per la festa della loro Madonna, celebrata la settimana precedente. Ci si poteva far scippare l’idea, la gloria e i turisti dai pontepietresi? Giammai! Fu ordinata allora, in fretta e furia, una super mongolfiera larga 65 metri e alta 200 forse 300, non si sapeva di preciso, perché sarebbe stata una sorpresa..

Per me lo fu senz’altro. Suonavo nella banda il clarinetto e già s’era conclusa la processione gremita di vecchiette litanianti e curiosi in cerca di religiosità al brigidino. Nelle mani dei bambini croccanti e palloncini scrocchiavano e scoppiavano con pianti e grugniti in un roboar di carie e elio liquido. Gli anziani della Compagnia in cappa nera erano a stento sopravvissuti all’ennesimo trasporto di baldacchino patronale, un tre quintali barocco di legno intarsiato che certificava annualmente  lo stato di avanzamento di artriti e dolori reumatici. Tutti si incontravano con tutti e si complimentavano a vicenda, ma guarda chi c’è, quant’è che non ci si rivedeva, o la mamma come sta, o come tu sei cresciuta, sembra ieri tu eri una bambina come? cinquant’anni portati bene però, davvero, ma allora non sei la Teresa di Ghigno? Oh la mi scusi sa, sono fatta un po’ sorda.

Il curato aveva salmodiato coi paramenti delle grandi occasioni nel giubilo delle campane a distesa, e smartellando a destra e a manca col solenne reliquiario come fosse una clava, aveva benedetto tutto il paese e centrato l’occipite del malcapitato sagrestano che se la sarebbe cavata con trentasei punti di sutura ma lì per lì la paura fu tanta.

La banda, sazia di Gloria e di Salveregine, suonava abusivamente Glen Miller travestito da marcia religiosa. D’altra parte anche l’inno del patrono, composto appositamente per la festa dal nostro Maestro, il nipote del vecchio Bretella, somigliava non poco a “bandiera rossa”. Nel baccano più totale gli addetti alla mongolfiera stavano gonfiando l’aerostato in segno di  paesana vendetta.

Accidenti, quant’era grossa la mongolfiera! Una specie di super-mammella, flaccida, grande quanto la piazza intera, con volute rotondeggianti, cominciò ad inturgidirsi per il gas oscillando colorata sempre un poco più in alto, finchè non assunse le dimensioni di una collina ed ancora continuava a gonfiarsi.

La banda intonò la marcia trionfale dell’Aida per celebrare quella meraviglia che cominciava davvero ad essere alta almeno duecento metri e tutta la gente, pian piano,  si lasciò prendere dallo stupore ed ammutolì quando il pallone, saldamente ancorato con i cavi al campanile ed al palazzo civico, assunse le proporzioni del cielo e coprì tutto il nostro orizzonte, con la bocca inferiore sospesa a circa 30 metri sopra di noi ed un diametro tale da coprire tutti i tetti del paese che non se ne vedeva più la vetta, ma si continuava a gonfiare, ancora di più, ancora di più.

L’avrebbero visto quest’anno anche dal capoluogo, tanto era grosso, e forse perfino da Firenze si sarebbero detti “guarda che mongolfiera han tirato su quest’anno quelli di Gravignana per la festa grande, un pallone che si è visto di quaggiù”…e che si continuava a gonfiare, ancora di più, ancora di più..

Tutto la piazza aveva gli occhi al cielo, per lo stupore la banda smise di suonare.

Il Curato, come fosse uno spettacolare segno della religiosità del suo popolo davanti a tutto il Cielo, fece un orgoglioso gesto beneditorio all’aerostato delle meraviglie e tutti dissero sottovoce  Amen, e si continuava a gonfiare, ancora di più, ancora di più.

Ormai era immensa. 

Alla Pro-Loco non avevano scherzato promettendo l’incredibile, sarà di 300 metri, invece era sicuramente più del doppio, nessuno avrebbe potuto dire quanto.

Ondeggiava per il vento in quota -e già sprizzava dalla voglia di liberarsi in cielo- una prosperosa e lieve immensità mono-mammellare che sembrava volesse allattare la notte tirandosi dietro il campanile come un biberòn; una prosperosa e lieve immensità che scalpitava come una gigantesca puledra nella sua voglia di libertà e che tendeva quei cavi d’ancoraggio come corde di violino e si continuava a gonfiare, ancora di più, ancora di più.

E siccome tutti guardavano in su, non se ne accorse nessuno. Di certo non fece rumore, accadde tutto in silenzio o comunque non sentimmo i gemiti e gli scricchiolii della terra, che pure ci devono essere stati, ma insomma fui io che, appoggiando il clarinetto a terra, vidi che i profili scuri delle montagne contro la notte non c’erano più. L’aria s’era fatta un poco più fresca, c’era qualcosa d’insolito, come se….

Il fatto è che tutto il paese era concentrato in piazza per la festa e tutte le altre strade e case del paese erano rimaste deserte, così nessuno vide i bordi del paese staccarsi e levarsi verso il cielo.

Le case ed i palazzi intorno alla piazza limitavano la nostra visuale, ma il palco della banda stava proprio sopra il pozzo, al centro della piazza, e da lì potevo vedere, dall’alto in basso, la grata della bocca del pozzo, e  infatti la vidi; e oltre la grata vidi il budello verticale del pozzo finire in un buco in fondo; e da quel buco in fondo vidi distintamente strade case e vallate un paio di chilometri più sotto farsi sempre più piccole e lontane.

Perciò quando gli addetti, muti e sorpresi essi stessi dell’immensità del pallone cui avevano dato vita, si dettero il gesto per staccare i cavi e liberare la mongolfiera verso il cielo, io urlai, squarciando il silenzio, “noo!!! fermi tutti!!!”: e per fortuna gridai!

Un istante dopo l’intero paese sarebbe precipitato a terra da dove era stato silenziosamente sollevato non si sa come, perché solo i cavi ormai lo aggrappavano alla sua mongolfiera.

Vero è che il paese doveva essere stato edificato sopra un roccione geologicamente instabile perché galleggiante su una enorme falda sotterranea; vero è che l’intero costone su cui poggiava era famoso per i suoi smottamenti; vero è che la forza ascensionale dell’enorme mongolfiera doveva avergli dato una spinta tanto silenziosa quanto titanica; ma quando corremmo a vedere dalle finestre delle ultime case della vecchia cerchia delle mura, il silenzio di un attimo prima esplose in un fragroroso trambusto di panico collettivo colossale con urla pianti e terrore e preghiere e bestemmie e mamme che stringevano i bambini fino a soffocarli e amanti avvinghiati nell’ultimo bacio col quale aspettare insieme la morte e mogli che scoprirono finalmente chi erano le amanti dei mariti e qualcuna poco ci mancò che la morte gliela desse davvero a randellate e figli che correvano verso i padri e chiccai che riponevano al sicuro i brigidini e topi che non sapevano dove scappare per abbandonare la nave e gatti che gli davano dietro e latrar di cani dietro ai gatti e il curato che dette il via nuovamente a tutte le campane gridando al prodigio e uno sconosciuto turista inglese che pensò bene di scattare delle foto a quella singolare manifestazione folkloristica e Gigi il macellaio che gli spaccò il teleobiettivo in capo perché, straniero o no, bisognava esser scemi a non capire che la faccenda era seria, e tutti a spintonarsi verso le finestre delle case che davano fuori dalla cerchia esterna  da dove si vedeva uno spettacolo agghiacciante: un enorme zolla di roccia larga tre chilometri, con al centro il paese, galleggiava nel cielo appesa alla mongolfiera e noi, accalcati alle finestre… eravamo sopra quella zolla!

Davanti e dietro, sopra e sotto,  ovunque, c’erano soltanto la notte e le stelle.

Stavamo semplicemente salendo su, verso la parte superiore dell’atmosfera, il paese a fare da zavorra del grande aerostato.

Tra gli urli e l’isteria di tutti fummo sfiorati da un jumbo di linea sulla rotta Atene-Copenaghen che per poco non centrava il vecchio hotel Serena e dagli oblò vedemmo i visi dei passeggeri trasfigurarsi in iguane impietrite col profilo di opossum agonizzanti, come se non avessero mai visto prima un paese sradicato volar su appeso a un pallone.

Laggiù la Terra cominciava ad apparir rotonda e azzurra come agli astronauti dello Shuttle, si cominciava a riconoscere il Mediterraneo, l’Africa, il Sinai e il Nilo, e fu allora che il vecchio Girolamo, ex partigiano e decano del paese, uno dei sopravvissuti al baldacchino barocco, esclamò: “evviva, ragazzi, meglio di Quark!”.

Infatti i vecchietti, capeggiati da Girolamo e dal vecchio Bretella furono tra i primi a recuperare lucidità dopo il collettivo pandemonio isterico e si rassegnarono di buon grado a farsi la più bella gita organizzata mai immaginata, altro che la due giorni a Cesenatico dello S.P.I., qui si andava sulla luna come Amstrong! Il vecchio Bretella, da trent’anni in carrozzina, disse “e vai, finalmente ci si muove!”.

I bambini si accodarono ai vecchi, correndo ovunque entusiasti ed eccitati per l’evento, approfittarono per far man bassa di croccanti incustoditi e brigidini momentaneamente orfani essendo i chiccai  corsi a recuperare i propri furgoni al parcheggio  fuori delle mura, rimasti però – i furgoni - sul bordo della zolla e da qui con tutte le altre automobili in sosta scivolati presumibilmente in basso ed al loro ritorno - poveri chiccai! - lo scempio caramellato era già stato perpetrato e ci fu chi calcolò che la inusitata pioggia di veicoli doveva aver fatto strage dell’abitato di Pontepietro, involontaria causa di quella esagerazione aereostatica, e se ne rallegrò nel suo intimo.

L’insolito panorama cosmico pian piano acquietò i terrori, con l’incredibile bellezza del pianeta Terra laggiù, ormai ridotto a far da mappamondo in una infinita stanza nera puntellata di stelle.

Quando la razionalità ricominciò a circolare negli animi dei protagonisti di quell’irrazionale e fantastica situazione, il maestro dette ordine alla banda di riporre gli strumenti e partecipò alla riunione dell’improvvisato Comitato di Crisi, composto da tutte le figure istituzionali presenti, ovvero: il Farmacista, il Vicesindaco con anche Gigi il macellaio (che era animoso consigliere comunale d’opposizione), il Curato, il Maresciallo dei Carabinieri, il Presidente della Pro-Loco e il Capo dei Tecnici che avevano gonfiavano il pallone.

La situazione fu subito chiara: cominciava a fare un freddo cane ed intrappolati in orbita c’erano un paese con una zolla di terra larga tre Km e 1573 (diconsi millecinquecentosettantatre) persone bambini compresi, inoltre 2 asini, un cavallo, 5 mucche, 36 polli, una chioccia, tre paperi, 18 gatti e circa 20 cani di cui 9 da caccia,  senza più automobili ma con ancora 6 trattori e una mietitrebbia. Non era il caso di sgonfiare il pallone, ci saremmo sfracellati tutti perché eravamo ancora legati alla gravità terrestre.

Certo, in quel momento non potevamo sapere che saremmo rimasti a vagare lassù per più di tre anni.

Ci organizzammo provvisoriamente collaborando tutti insieme con una armonia ed una letizia che mai più avrei ritrovato fra esseri del genere umano. L’Avventura (così fu battezzato l’insolito evento che ci accomunava al medesimo aereostatico destino) aveva mitigato i caratteri e rinsaldato il sentimento solidale. Ce n’accorgemmo subito per l’insolita reazione dei chiccai, che non s’incazzarono né per la perdita dei furgoni nè per il ratto dei brigidini, e per il Curato che prestò iniziò a giocare a briscola al Circolo della Piazza perfino con Bretella che notoriamente era un mangiapreti comunista.

Al circolo per tutto quel tempo vi furono cappuccini gratis, per quanto possibile col latte delle 5 mucche e le scorte, fortunatamente pingui, di caffè dello spaccio. Per i bambini almeno non ne mancò mai.

Memorabili tornei di briscola e di calcio-balilla impegnavano tutto il paese e duravano intere settimane. Ogni sera la banda suonava in piazza, ballo e tombola, ogni “sera” cioè secondo la nuova scansione del tempo, perchè lassù nel cosmo il curato regolò l’automatico delle campane in modo che ogni ora ne durasse sei ed il giorno fosse di 144 delle vecchie ore, così che in un giorno d’Avventura c’entrasse di far sempre tutto, dormire, giocare, pregare, discutere al circolo e ballare alla sera, ogni “giorno”. Stratagemma azzeccato perché scomparvero gli assilli  per la furia e l’angoscia del quotidiano. Il tempo che prima non c’era mai, adesso c’era in abbondanza, con sommo vantaggio per tutti.  Le 1573 persone si scoprirono così a vicenda, i padri giocavano con i figli e coccolavano le mogli, le mogli curavano gli anziani e badavano ai piccoli, i vecchi erano finalmente assecondati nelle loro storie interminabili al Circolo, sembrava d’essere in una fiaba. Invece eravamo in orbita attaccati a una mongolfiera. E che orbita!

Due studenti di fisica dell’Università dei Firenze, i nipoti di Ghigno e del Vicesindaco, insieme al farmacista ed un computer, calcolarono le effemeridi che aveva assunto l’Avventura, simile a quella di una cometa. Secondo loro avremmo vagato oltre Giove per la fascia di Kuiper  e poi forse ritornati indietro. Con moto sinusoidale a causa dell’interferenza gravitazionale di Saturno che avremmo incocciato dopo 2 mesi. Insomma, a zig zag fra Marte e Giove, giocando a scartino con gli asteroidi.

Ed avevano proprio ragione perché prima la Terra diventò piccola piccola, poi scomparì anche la Luna, e nel viaggio avemmo modo di vedere anche Saturno con gli anelli e tutte le altre meraviglie del sistema solare.

Ci salvarono le meteore.

Quelle di ghiaccio ci portavano l’acqua a sufficienza, ghiaccia marmata ma bastava scioglierle al calore e c’era acqua potabile cosmica per tutti. Quelle nere assicuravano il carbone combustibile per la improvvisata centralina elettrica (a carbone, appunto) realizzata artigianalmente e a tempo di record glaciale da Ernesto il pompiere e dal turista inglese, risultato più in gamba del previsto, i quali per l’occasione sacrificarono stantuffi e pistoni di tre dei trattori e della mietitrebbia salvandoci dallo zero assoluto quando già si cominciava tutti a congelare, tanto che per sopravvivere, in quelle prime interminabili 14 ore siderali, ci stringevamo l’uno ammassato all’altro creando con i corpi pigiati una sacca termica di resistenza a malapena sufficiente. I maldicenti riferirono che nel pigia pigia il signor Curato s’era dato da fare con Gina la Sarta, che effettivamente rimase in cinta ma non disse mai di chi. Peraltro quello non fu il solo bambino che dopo nove mesi da quelle fatidiche 14 ore venne alla luce.

Meteore nere ce n’erano in abbondanza lassù e il paese, attivata la centrale, fu salvo al calduccio, sempre illuminato e riscaldato a festa. La bolla d’aria imprigionata nella gravità del pallone creò atmosfera sufficiente per tutto il tempo. Fortuna che insieme al paese si era portata su un pezzo di bosco che faceva sempre nuovo ossigeno. Dall’acque di scarto (prima di espellerle nello spazio), per maggior sicurezza si ricavava altro ossigeno con l’elettrolisi e più precisamente con un congegno curioso fatto di botti, tubi, calamite e specchi messo in piedi dall’inglese insieme al farmacista e al falegname.

Vi erano poi, per fortuna, le meteore mangerecce. Non ci crederete, ma nel sistema solare vagano grossi sassi fatti di una specie di pasta farinacea commestibile di color bianco-rossastro, simile a pasta di ceci, che le donne del paese impararono a cucinare in mille ricette diverse ed appetitose. La campagna trascinata insieme al paese fu coltivata ad orto, e ci furono pomarole fantastiche su spaghetti dal sapore di ceci.

C’era lavoro per tutti e tutti assolvevano diligentemente ai loro compiti.

Io ero nella squadra meteore.

Non mi ero mai divertito tanto. Avvistavamo meteore di tutti i tipi, le selezionavamo, quindi le arpionavamo con dei lunghissimi rampini fatti di tubi preparati dal falegname, aste che si avvitavano un pezzo sull’altro formando pertiche lunghe fino a 7/8000 metri che sporgevano nello spazio. Se la meteora aveva il nostro stesso verso, praticamente ci affiancava come se fosse stata in corsia di sorpasso, di poco più veloce dell’Avventura, ed era uno spasso agganciarla in corsa, era come se un bombolone galleggiasse due o trecento metri sopra di noi e non ci restava che appigliarlo e tirarlo giù, quasi ci si restava male che non c’era la crema dentro. Se invece aveva rotta contraria o incidente, s’attaccavano e proiettavano nello spazio, magari dalla vetta del pallone, due lunghissime pertiche parallele che “alzavano” una grande rete e se l’oggetto era di piccola taglia ci rimaneva dentro come una quaglia. A volte la forza della meteora imprigionata nel retino gigante faceva sbilanciare l’Avvenura rispetto al baricentro di attacco al suo pallone, e allora si beccheggiava da poppa a prua per giorni e giorni.

Diventammo così bravi che riuscivamo ad intercettare interi gruppi di meteore a grappoli con un complicato labirinto di pertiche e reti issato per una decina di chilometri oltre l’Avventura e che noi chiamavamo “la tonnara”, costata venti “giorni” sestupli di lavoro al gruppo dei tecnici del pallone per essere predisposto quando si faceva man bassa di sassi cosmici  tra gli anelli di Saturno.

La maggior carestia fu tra nettuno e plutone, quando per quasi 15 giorni sestupli non intercettammo una sola meteora commestibile e ci ricordammo dei polli, che non tornarono tutti e trentasei.

Certo, se ne intercettano di cose strane a giro per l’Universo! Durante il nostro viaggio cosmico ne abbiamo viste di tutti i colori.

Una nave pirata malese, spedita in orbita da un uragano nel mar della Cina, incappò nella tonnara e ci puntò contro le bocche dei cannoni. Per fortuna il fatto era successo tre secoli fa e avevano finito la polvere da sparo. I pirati veri eran già tutti morti di vecchiaia. I loro pronipoti in una lingua intraducibile  ci chiesero se era sempre vivo l’odiato re del Siam. Quando capirono che eravamo Europei si rilassarono, ripararono le vele, scambiarono 6 tonnellate d’oppio con altrettante galline per garantirsi le uova  e ripartirono per la loro strada.

Dopo Giove trovammo Eugilda, la donna cannone del circo Orfei sparata per sbaglio oltre l’atmosfera nel 1978. Da 24 anni vagava per il sistema solare a bordo del suo proiettile. Pesava all’origine trecentoventi chili ma dopo quasi cinque lustri di dieta cosmica si era ridotta a un figurino di appena cinquanta e ora si piaceva moltissimo. Arpionata e tirata giù dalla Squadra Meteore, s’innamorò subito del sig. Maresciallo, e il Curato ne celebrò le nozze dopo tre mesi con festa grande di tutta l’Avventura e si mangiò e si ballò per 10 “giorni” di fila e le 6 tonnellate si ridussero a quattro in una nuvola d’allegria dove perfino le mucche ballavano la samba.

Una volta ci passò a distanza un folto gruppo d’uccelli. Li vide per primo il vecchio Palestro, una gloria vivente dell’Arcicaccia così chiamato perché dicevano fosse veramente un reduce della famosa battaglia nelle file piemontesi, che in men che non si dica dissotterrò la vecchia colubrina da sotto il materasso è tirò giù con quattro precisi tiri di schioppo altrettanti serafini  alati e paffuti. Lo stormo angelico, forse inviatoci in divino soccorso, si guardò bene dall’avvicinarsi oltre e si dette ad una prudente quanto disordinata fuga. Guardammo tutti con un’espressione di  benevolo biasimo il vecchio Palestro, che si scusò dicendo che l’aveva scambiati per oche e che alla sua età la vista non è più quella. Che mira, però, la vista che non era più quella! Comunque fu a tutti  chiaro che gli angeli non erano immortali e che il nostro pellegrinaggio cosmico ci aveva portati in prossimità del Paradiso, anzi forse stavamo per cascarci dentro, come in un grosso buco gravitazionale (il grande Buco Bianco!) risucchiati per l’eternità.

Che trambusto! Con le campane a martello il Curato convocò un’assemblea plenaria in chiesa che tutto il paese affollò.

La prospettiva di cascare dritti in paradiso non convinceva nessuno, men che meno il  Curato, ormai legato more uxoribus a Gina la Sarta. Bretella preferiva passare i pomeriggi a giocare a briscola piuttosto che a cantar laudi e salmi – disse proprio così, laudi e salmi – e Palestro, dopo che aveva fatto fuori i serafini, aveva una fifa boia di presentarsi lassù. Ma anche tutti gli altri avevano maturato, laggiù sulla Terra, le loro buone ragioni per ritenersi sgraditi agli angeli. La decisione di scansare almeno da vivi il Paradiso fu presa all’unanimità. Eugilda si offrì volontaria e fu sparata con il suo obice nella direzione opposta con tutti i razzi di fortuna possibili. L’obice era collegato stavolta al pallone da una lunghissima catena d’acciaio, e spostò la curva gravitazionale dell’Avventura quanto bastava per paraboleggiare a ritroso sulla via del ritorno. Quindi la catena, l’obice e l’eroina furono recuperati a spinta riuscita.

Poi ci fu quella volta che incontrammo una Cometa.

Era bellissima, bionda, occhi verdazzurri, aveva più curve della statale per l’Abetone e un seno da favola, ce ne innamorammo tutti. Gli scienziati sulla Terra non capiscono proprio un acca descrivendole come grumi di ghiaccio che vagano svaporando code nel vento solare. Non sono che sirene astrali, bellissime, viventi, gigantesche certo, ma anche assolutamente sexy! La coda è come quella delle sirene, appunto, a coda di pesce, ma è coperta con i lunghissimi capelli biondi, dai quali si intravede appena ciò che nemmeno alla redazione di Playboy si immaginano. Un visetto – 481 metri di diametro -  ingenuo e delicato dove erano incastonati due occhi di giada, intensi, profondi, che suscitavano una rivoluzione ormonale in tutti gli esseri di sesso maschile. Ernesta, la nostra cometina si chiamava così, era simpaticissima, raccontava storie incredibili di pirati siderali e mondi sublunari intorno a Giove abitati da ragni giganti che giocano a baseball, conosceva un sacco di barzellette nuove su Berlusconi che gli avevano raccontato alla fiera di Plutone, scherzava e rideva con una risata ilare e squillante che era la quintessenza dell'allegria. Aveva per noi un sacco di attenzioni, ci riassestò perfino il pallone ribaricentrandolo con una carezza di coda, fece fare un giro sulla sua chioma a tutti i nostri bambini. Vagava nuda e sola, come tutte le comete, in attesa di incocciare il suo astro, simpaticissima e dolcissima, e poi quelle due tette fantastiche, veniva voglia di sposarla. Quando dopo una settimana ripartì per la sua orbita, gli uomini di tutta l’Avventura, compresi i vecchi e i bambini, piansero a lungo di un pianto sincero e genuino, disperato e singhiozzante, come quello dei vitelli al macello, di pura disperazione e suprema infelicità. Io stesso rimasi per giorni col fazzoletto in mano e gli occhi umidi a balbettare “Ernesta, Ernestina….”

Un giorno tutta l’Avventura venne avvolta da una nube di polveri fini ed umide, una vera e propria nebbia siderale, che in tre ore diventò fitta, ma così fitta, ma così fittà che camminammo tutti a tentoni nel buio più completo poiché non ci si  vedeva da qui a lì. Ci dovevamo muovere a tasto, come fossimo  tutti ciechi. Furono giorni di gloria per il Curato, che in prossimità di ogni ragazza si trasformava nella dea Kalì, tastando marciapiedi sporgenze e davanzali come il più prudente dei nonvedenti. Ma in quella nebbia misteriosa succedevano le cose più strane, vedemmo vagar per il paese le sagome appena intravedibili di animali d’ogni foggia ed epoca e dimensione: elefanti mammut dipodocli cammelli oranghi orsi centauri pipistrelli ippopotami e allosauri ci sfioravano con le loro sagome nella nebbia più fitta senza peraltro che riuscissimo a toccarli mai. Ricordo che raggiungevo a tentoni il circolo della piazza quando fui sfiorato nella nebbia dalla sagoma di un collo enorme, lungo tre metri, e da sopra il collo si chinò verso di me la testolona enorme di una giraffa, il cui muso vidi benissimo, distinguendo perfino il colore della pelle, e gli occhi, e le corna. La testa  con i suoi labbroni mi addentò la manica della giacchetta come fosse stata una scorza di acacia e se ne mangiò sei brandelli, salvai il braccio per miracolo e me la detti a gambe, ma ancora non ho capito dove avesse il corpo e le zampe  perché io ero sul piano strada e la giraffa a quel livello aveva solo il collo. Comunque ci rimisi la giacchetta. Gigi il macellaio giurò di aver visto passare quattro enormi zampe di elefante senza il corpo e la testa, da sole, proprio nel vicolo traverso dove ha la macelleria, e per di più in fila indiana. Il maresciallo andò a controllare le scorte d’oppio custodite sotto chiave, ma erano ancora lì. Il Vicesindaco giunse tutto trafelato giurando e spergiurando di essere stato aggredito da un orso cioè solo dalla testa e dalle zampe anteriori di un orso privo di corpo e posteriori. Che solo grazie al tempestivo intervento dello schioppo di Palestro era riuscito a cavarsela. Andammo a controllare, la testa stecchita dell’orso era sempre lì, delle zampe anteriori nessuna traccia, ma impronte di zampe e unghioni d’orso in fuga dappertutto. In fuga nel senso che come ci videro arrivare con Palestro, le impronte scapparono via, saltellando all’impazzata come ranocchi spaventati. Non ci si capiva più nulla. Qualcuno giurò di aver intravisto ragni giganti come palazzine giocare a baseball.

Quando alla fine la nebbia si diradò, la campagna intorno sembrava un cimitero degli animali, ossa e scheletri vertebrati ovunque, ma non un solo pezzo di animale vivo. Bruciammo le ossa nella caldaia tranne che un enorme scheletro intatto di mammuth che fu montato e posto eretto in piazza come fosse la sala di paleontologia di un museo. La prima volta che la banda, dopo la nebbia, riprese le serate danzanti, lo scheletrone di mammuth con meraviglia generale si mise a ballare il tango. Col caschè. Cascò infatti alla cadenza finale su se stesso in un fragoroso cumulo di ossa. Troppo stregato, decidemmo di bruciare anche lui, con buona pace della scienza paleontologica.

Come teorizzato dalle effemeridi dei nipoti di Ghigno e del Vicesindaco, l’Avventura concluse puntuale la propria orbita di ritorno verso la Terra. Venne il giorno che rivedemmo la Luna e l’Oceano Pacifico dietro di quella su un pianetino azzurro.

Ci fu grande eccitazione, si tornava finalmente a casa. L’inclinazione dell’orbita di rientro era morbida abbastanza da consentire in reinserimento non traumatico nella gravità terrestre. Una volta lì, anche l’inglese era d’accordo che sarebbe bastato sgonfiare gradualmente il pallone e riappoggiare l’Avventura graziosamente al suolo, magari proprio da dove era partita, ma per non rischiare di sbagliare manovra e schiacciare magari Pontepietro o San Marcello, in luogo delle montagne pistoiesi saremmo scesi nel deserto di Gobi.

Tutto era pronto, già la Luna ci mostrava la sua brufolosa faccia nascosta, che secondo me non ci fa mai vedere perché si vergogna, tuttavia c’era un clima strano, quasi triste, tra tutti i protagonisti dell’Avventura al termine serpeggiava un inespresso disagio che li teneva taciturni, chi a fissar la terra in basso, chi a far sospiri, chi a tossicchiar nervoso. Nessuna euforia, nessuna ansia di ritorno, nessun entusiasmo. Finchè il vecchio Bretella esclamò: “ ma si deve tornare per forza laggiù? A fare il vecchietto parcheggiato in carrozzina?” “…Non s’è ancora visto Venere, e Mercurio...” disse Ghigno. Il Curato, anche lui poco desideroso di tornar laggiù e render conto al suo Vescovo di quanto era successo fra lui e la Sarta, convocò tutti in chiesa in una gremita assemblea…l’eccitazione era pari al giorno del decollo, c’era l’elettricità e la tensione delle decisioni irripetibili.

“Diciamocela onestamente, figlioli. Chi ha voglia di tornar laggiù alzi la mano”.

“Io sono per continuare il viaggio”

“Torniamo da Ernesta”

“si, da Ernesta!”

“Noi bambini non vogliamo tornare a scuola, quassù possiamo giocare sempre”

“ma chi ce lo fa fare?”

“io sono cassaintegrato, non voglio tornare a farmi integrare in una cassa”

“io ho lasciato laggiù moglie e suocera, che ci restino per carità”

E venne fuori un vocìo, un baillame, vi potete immaginare, con tutti che si parlavano addosso, e per tutti era giusto ritornare, magari per i parenti che però magari si eran già divisi le eredità, magari per gli amici sì, ma poi quali amici, insomma nessuno ne aveva davvero voglia, anzi in definitiva quel mondo di stress, incidenti stradali, disoccupazione, solitudine, cambiali, televisori, inflazione, campionati di calcio e carobenzina non attirava proprio nessuno.

Eravamo felici, sull’Avventura, il Mondo con tutti i suoi problemi quotidiani non ci attirava più.

L’Inglese, col carbone e la pirite, preparò in tempo di record due enormi razzi.

Disse: “guardate però che non sono sicuri, potrebbero deflagrare distruggendoci tutti, sorry”.

Ma in trenta secondi fu presa la decisione unanime di spararli comunque e subito. Con due spari di fulmicotonica possenza i razzi, pilotati dall’instancabile Eugilda, furono indirizzati verso la libertà. Sfruttando la gravità lunare e gonfiando la mongolfiera a più non posso siamo effettivamente riusciti a non lasciarci intrappolare per sempre dalla gravità terrestre. Ora stiamo festeggiando con altre due tonnellate di oppio e le mucche stanno di nuovo ballando la samba.

Mi è stato dato l’incarico di scrivere questo breve resoconto e di buttarvelo laggiù, in questo plico antiattrito che vi abbiamo catapultato verso le montagne pistoiesi. Con l’occasione comunichiamo le dimissioni del Vicesindaco e di Gigi il macellaio dal Consiglio Comunale, e il sig. Curato informa la Curia della sua impossibilità a proseguire i propri doveri ecclesiali al presbiterio della cattedrale. Salutiamo tutti gli amici e soprattutto i parenti che ancora ci dovessero ricordare (quantomeno per gli  appetiti ereditari che però dovranno temporaneamente acquietare non essendo affatto defunti come qui con la presente attestiamo anche in termini legali grazie al sig. Vicesindaco che di professione è Notaio). Salutiamo e proseguiamo verso Venere.

Stateci bene.

(seguono firme, autentiche ai sensi di legge).

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