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i ladri

della felicità

Avete mai fatto caso a quanto poco durano i momenti di felicità?

E’ senz’altro l’esperienza più comune di questo mondo che, quando ci sono momenti tristi, la depressione non passa mai, e quando invece ci sono momenti lieti la felicità è come se svaporasse in un attimo.

Eppure la felicità dovrebbe equivalere alla tristezza, due stati d’animo contrari ma affini, come il giorno equivale alla notte, come i maschi son pari alle femmine, i semafori rossi a quelli verdi, l’emisfero destro a quello sinistro, e via di questo passo. Invece non è così. I tristi sono più dei felici, e non c’è spiegazione logica.

Pensateci bene, non vi sembra strano? Come ognuno di voi avrà imparato a proprie spese l’infelicità perdura più a lungo di qualsivoglia contentezza, non la si finisce di  smaltire mai.

Mi ricordo per esempio, quand’ero ancora un ragazzino, che dopo il mio primo quattro a matematica restai di malumore per giorni e giorni, mi sentivo fallito, tradito dai professori, feci a pugni con i miei compagni con ogni pretesto anche il più stupido, leticai con mio padre e pensai di scappare di casa, un mese d’inferno, non mi passava più.

Invece, dopo il mio primo bacio (si chiamava Deborah, prima ci, ed era una deliziosa sbarbina dai capelli rossi) per quasi due minuti mi sembrò di volare, poi lei salutò con un dolcissimo ciao ed io m’intristii subito perchè m’assalì la matta paura che il giorno dopo avrebbe dimenticato tutto e che non mi avrebbe salutato neanche. E così fu, puntualmente, colpa di quel figlio di papà del Falletti e della sua nuova mountain bike, troppo facile battere la concorrenza di un appiedato quando si ha sotto il culo un modello sportime cross cinque moltipliche dai colori sgargianti, e così addio capelli rossi, ma questa è un'altra storia.

Comunque la cosa non mi tornava proprio. Mica tanto che quel buzzurro firmato del Falletti mi avesse scippato la sbarbina, no. Non capivo come fosse successo che dopo un momento grande come il mio primo bacio tutta quella felicità fosse svaporata nel nulla con la prima paura di perderla. Non poteva durare, che so, il ricordo, il sapore, la memoria di tutto quel benessere per almeno qualche giorno? Sentii puzza di bruciato.

Allora cominciai ad osservare il mondo con una certa attenzione e scoprii che finiva sempre così: la felicità spariva subito da chiunque, non appena ne assaggiava un poco. Ricordo quell’anno la nazionale vinse i mondiali. Fu una notte di straordinaria follia, come se tutta l’Italia fosse improvvisamente felice, caroselli, bandiere al vento, salti, balli, baci ed abbracci, I-ta-lia, I-ta-lia, un popolo insonne e allegro come non mai, poi il giorno dopo tutti tristi come prima. Così, di punto in bianco, cinquantaquattromilioniepassa di intristiti! Non era possibile che tutta quella gioia collettiva non avesse lasciato traccia in nessuno dico nessuno solo dodici ore più tardi. Guardai meglio cercando almeno un sorriso in più del solito. Macchè, a parte una epidemia di occhiaie, non riuscii a registrare neanche una mezza allegria ulteriore  fra tutti coloro che incontrai il giorno dopo.

Fu allora che il sospetto in me si fece certezza: qualcuno o qualcosa rubava la felicità degli uomini. Ed io mi proposi di smascherarlo qualunque cosa o demone fosse.

Ne seguirono vent’anni di appostamenti. Per la verità all’inizio fu molto difficile. Chiunque fosse il ladro, non aveva vita facile: non immaginate nemmeno quanta penuria di attimi  felici ci sia a giro per il mondo. Mi accorsi così che gli uomini erano tutti sempre incazzati, ingrugniti, indisposti, intristiti, avviliti, disperati, scoraggiati o nella migliore delle ipotesi melanconici. Cercare attimi felici era una vera impresa. Mi ci volle un bel po’. Poi piano piano, dopo mesi e mesi di attività, affinando la tecnica osservativa, scoprii che ci sono dei luoghi dove è più facile scovare qualche sorriso.

Non sono poi molti. Nei giardini, dove si danno i primi appuntamenti gli amanti; allo stadio, quando la squadra del cuore vince il campionato; all’ufficio di collocamento, le poche volte che finalmente ti danno un lavoro vero; raramente, alle maternità degli ospedali, quando nasce un bambino desiderato (che poi sono la minoranza); posti così. Per carità, alla larga dai matrimoni, dove la felicità è d’obbligo ma è quasi sempre falsa. Semmai si può fare incetta di invidie e pettegolezzi. Quanto alla gioia della sposa: tutta letteratura. Rassegnazione piuttosto. Mi ricordo per esempio al matrimonio del mio amico…ma sto andando fuori tema, torniamo all’ argomento che mi preme. Dunque.

Con l’esperienza divenni un ottimo cacciatore di sorrisi, che scovavo felici qua e là, principalmente negli adolescenti innamorati e nei grandi azionisti Fiat il giorno dei dividendi. E cominciai ad osservare.

Manco a dirlo, tutte le felicità erano brevissime: gli amori finivano subito, e sovente non riuscivano nemmeno a cominciare; gli entusiasmi degeneravano nell’abitudine e si facevano disgregare dalla routine; i profitti asfissiavano tosto nella preoccupazione di evadere le tasse. Ah, che assillo per un imprenditore la Guardia di Finanza! O per una neo-mamma un decreto ingiuntivo di sfratto pupo incluso, o per gli innamorati le sabbie mobili della quotidianità dove s’immelma la passione…  Quanta passione sepolta è calpestata ogni giorno nei supermercati! La morale era sempre la stessa: uno non fa in tempo ad essere felice che…

Dopo dodici anni (dico dodici), quasi per caso, il primo indizio. Fu ad una ricevitoria del lotto, marito e moglie riscuotevano felici un buon terno e poi, dopo neanche cinque metri eccoteli litigare selvaggiamente su cosa fare dei soldi. L’ennesima felicità subito svaporata, pensai, ma l’attenzione mi cascò su un signore vestito normalmente con giacca e cappello ed una cravatta gialla che fece uno starnuto. Era fra i tanti passanti che guardavano divertiti la scena, certo, ma nel suo sorriso non c’era il ghigno divertito degli invidiosi, quanto la smorfia serena di chi sapeva già tutto. Il solito parente che “lo sapevo io che tanto finiva così”? Chissà. Per una interconnessione inspiegabile e magica dentro i pensieri liberi, come solo i sogni dei pazzi e l’arte dei poeti sanno produrre, la memoria mi tornò ad un altro starnuto, quello del professor Pagliarini che uscendo da scuola, quel giorno, fece arrossire la mia sbarbina dai capelli rossi (e terminare il primo bacio). “Non la consumare tutta, quella lingua, che domani ti serve all’interrogazione”. L’indomani presi quattro a storia, ma ormai alle insuffi mi c’ero avvezzo, e poi c’avevo Falletti per il capo e non me ne curai. Ma ricordai bene che aveva starnutito.

E cominciai a notare che tutte le volte che una felicità svaporava, qualcuno lì vicino  starnutiva. Di uno starnuto secco, un po’ trattenuto per non farsi notare, ma non di bronco, con un che di falso quasi a presa di giro, praticamente inconfondibile, come quello del professor Pagliarini, come quello dell’uomo con cravatta gialla, lo stesso starnuto, sempre.

Gli starnutanti assumevano le più varie forme. Ai giardini spesso un signore distinto e d’età con cappello sulla panchina vicina, il volto dietro il giornale. Qualche volta il barboncino della signora col cappellino (lo stesso starnuto!). Alle messe di matrimonio il prete, ite missa etci! e qualche volta l’organista. Ai reparti maternità l’addetto delle pulizie, etcì! allo stadio l’omino del pop-corn etcì!: qualcuno starnutiva sempre. E curiosamente chi starnutiva aveva come l’occhio porcino, tale e quale al professor Pagliarini, sempre quello stesso lubrico sguardo, tanto il vecchietto della panchina che il prete dall’altare nuziale, perfino il barboncino, la stessa porcina espressione. Uno stuolo di starnutanti dagli occhi porcini era sempre nelle vicinanze di una svaporante felicità.

Avevo fiutato la pista giusta. Gli indizi si moltiplicarono e divennero prove.

Ne ricordo di incredibili!

Una volta riconobbi l’occhio porcino perfino nei  documentari di Quark, accanto a Piero Angela (come ti assomiglia al professor Pagliarini quello lì!) ricordo il pasto di un leopardo e poi un bradipo che starnutì, - sì, starnutì vi dico! - e la preda del felino, gaudentemente appollaiato sul ramo di un albero vicino, etcì, scivolò nella palude sottostante e addio pasto. Impressionante!

Ricordo in corso Mazzini, quel bambino che leccava un gelato più grosso di lui costatogli una bizza infinita davanti al chiosco del gelataio (e più di una sberla della madre prima che questa si volesse rassegnare al supplemento di vaniglia e colesterolo per il capriccioso pargolo), finalmente soddisfatto finchè un piccione enorme, con sei metri di apertura alare che pareva un albatros, centrò con un escremento di mezzo chilo la parte superiore del cono gelato rendendolo bigusto pistacchio e vomito, ed io lo vidi benissimo a non più di due metri dal bambino, un pappagallo della vetrina di animali dallo sguardo inequivocabilmente porcino: etcì! Sconvolgente!

Ricordo il mio povero amico Filippo, il meccanico.

Il giorno prima, dopo un lustro di spenta solitudine post-divorzio, con la complicità di una coppa dell’olio impazzita aveva rimorchiato la sua conducente, una gnocca da sogno, cecoslovaccasenzapiùslovacca, che per gratitudine era andata in camera da lui, gratis, in una notte indimenticabile. Era al settimo cielo prima che quelli della narcotici che la pedinavano gli demolissero l’appartamento scovandogli due partite di purissima che la cecosloeccetera gli aveva lasciato nascosto nel serbatoio del water.  Gli ci vollero dodici milioni  di vecchie lire in avvocati difensori per dimostrare che lui non c’entrava nulla, dei quali due prestati da me e non ancora restituiti. E il particolare che mi si impressionò indelebilmente nella memoria (ero presente quando fecero irruzione col mandato, per un caffè di celebrazione in onore della gnocca), il pastore tedesco dell’unità cinofila, che prima fiutò tutto il fiutabile, poi, a purissima scovata, uno starnuto secco da cimurro dilagante, uno solo, etcì!, il marchio di riconoscimento. Voltò il muso verso di me: aveva l’occhio porcino!

Ormai sapevo come riconoscere quelle creature e decisi di andare fino in fondo. Al parco cercai la solita coppia di innamorati, lui negli occhi di lei, lei negli occhi di lui, un vecchietto dall’occhio porcino nei pressi a sbavare dietro una siepe, no no, non è lui, troppo vecchio e sudicio, questo è il solito guardone rimporchito che staziona in ogni parco giochi, eccola là invece, la “creatura”, un signore giacca e cappello che legge il giornale due panchine più avanti, distinto, non dà nell’occhio, circa sessant’anni non troppo alto, da scommetterci: è lui.

Bhè, che volete, mica potevo tentare con un pastore tedesco dai denti affilati, mi ci voleva una creatura almeno della mia specie, non conosco il bradipese.

Mi siedo la panchina accanto, getto delle briciole ai piccioni, e osservo. La coppietta è troppo lontana, succede qualcosa che  non riesco a sentire. Lei si alza con le lacrime agli occhi e corre via. Lui resta lì sconsolato a tenersi il capo fra le mani. Il vecchietto dietro la siepe cambia postazione puntando verso due adolescenti che si baciano. La creatura starnutisce, distintamente, una volta sola, lo sguardo porcino: etcì. Ha fatto un altro pieno di felicità, ne sono sicuro, ha rubato la felicità dei due giovani, ha compiuto la sua missione ed ora si alza dalla panchina, va verso l’uscita. Lo seguo.

Entra prima in un fast food, ordina una birra, io mi siedo discosto ad un altro tavolo e mi accingo a trangugiare un hot dog. Mentre la salsa piccante mi ustiona le mucose del cavo orale mi chiedo che brandelli di felicità potrà mai ricavare da un locale come questo, pochi paninari studenti e tanto fumo, dove la cosa più allegra che c’è è il juke box che rumina musica dark. Caccia magra, bello mio, infatti si alza a fine birra ed esce. Lo seguo. Torna verso il parco. Ancora sulla panchina. Tento il tutto per tutto, voglio arrivare in fondo a questa storia, mi siedo accanto a lui.

“E’ vero, caro signore, io rubo la felicità” – dice improvvisamente voltandosi verso di me, con un furbetto sguardo porcino. Cazzo, la creatura legge nel pensiero, non l’avevo previsto, che stupido! Sono uno stoccafisso dalla paura, ma ormai sono in ballo devo ballare. Con gentilezza è lui che continua e dice: “Non deve giudicarmi male, sa, è il mio lavoro, e mica è facile. C’è meno felicità nel mondo di quanto miele sia sulla luna, una faticaccia.”.

Vorrei chiedergli chi è, per chi lavora, che c’entrano le lune di miele, a chi serve questa criminale sottrazione di benessere dall’umanità, vorrei far bella figura con le sei domande canoniche imparate alla scuola di giornalismo “chi-dove-come-quando-quanto-perché”.

La fifa mi fa balbettare a malapena un “Ma...bh...ch…cioè…prch…quasi?”. Dio che figura! Che c’entrava il quasi! Fortuna che quello legge nel pensiero e capisce tutto.

“Vede, io sono un piccolo genio, quello che voi chiamate folletto. E vengo dal mondo  delle fiabe, come tutti quelli della nostra Organizzazione. Non si faccia ingannare dalle apparenze: operiamo a fin di bene.”

“…F...fiabe?” mi azzardo incredulo. Non capisco più niente.

“Certo, - replica lui - io sono una creatura di un mondo sovrapposto a quello fisico, che comunica con questo solo attraverso il sogno ed i bambini, un mondo originale, da sempre dentro e sopra di voi  ma che voi non riuscite a vedere. Insomma, una dimensione parallela. Mai sentito parlare di iperspazio, di sesta dimensione, di ectoplasma inerziali? Quelle cose lì. Io sono una creatura del parallelo mondo che voi chiamate mondo delle fiabe, convinti voi che non esiste, ed invece esiste eccome, più reale di quello fisico.

E di tutte le creature fantastiche che popolano le fiabe, di tutto lo stuolo di maghi, fate, gnomi, draghi, folletti e spiritelli che contornano i Re e le Regine dei “C’era una volta”, io ed i miei colleghi abbiamo il più bizzarro destino di tutta la nostra già bizzarra dimensione: siamo ladri, ladri di felicità. Fin dalla notte dei tempi, sa? Nelle epoche più diverse, nelle storie più varie, io personalmente sono stato Fauno nell’antica Grecia, e poi satiro in Arcadia, zefiro in Tracia, gnomo in Scandinavia, ed ancora angelo, putto, spiritello, druido, puffo e come ha visto anche lei perfino bradipo nella foresta pluviale. Ma sempre con questo sguardo e – particolare che lei non ha ancora notato, mi permetta, con questo sbuffo di barbetta caprina sotto il mento. Mi dona? Ne vado orgoglioso!”

Oddio, pensai, la barbetta del professor Pagliarini!

“Un caro collega. Facciamo parte, come lei ha capito, della stessa Organizzazione. Per chi lavoriamo? Ma caro signore, siamo agenti della Banca della Felicità. Lavoriamo, in definitiva, per gli operatori d’impresa del nostro mondo, principalmente le fate ed i  buoni maghi, ma anche a volte  divinità benigne, specie nelle leggende antiche. Sono loro che investono i loro magici capitali per dar vita a sempre nuove favole e sempre più produttive.”

“Produttive di che cosa?… Cosa producono?”

“Sogni e fantasie per bimbi. Insomma fiabe. Cosa altro si dovrebbe produrre nel mondo delle fiabe se non appunto fiabe, fiabe dolcissime e bellissime da raccontare ai bambini quando si addormentano?”

“Ma perché rubate la felicità?”

“Perché la felicità è una sostanza pura, ingenerata ed ingenerabile, non la si può fabbricare, non la si può creare così come non la si può distruggere, non nasce e non muore, la sua quantità totale nell’universo è assolutamente costante. Quella che c’è c’è, quella che non c’è non c’è,  e non ce n’è di più. E noi abbiamo bisogno di tanta felicità, per la Banca. E da dove la prendiamo? Appena possibile la rubiamo a quei pochi momenti felici della vita degli uomini e di tutti gli altri animali superiori. Anzi, meno male ci sono gli animali, sennò Banca addio ed addio Organizzazione.

La verità è che ha più momenti felici la settimana d’un gatto rognorandagio che l’intera esistenza di un essere umano. E questo, guardi, le assicuro, non è per colpa nostra. E’ che gli umani si crogiolano nell’infelicità, e quand’anche gli andasse tutto a meraviglia, lavoro sicuro, conticino in banca, una bella casa, una mogliettina fedele e carina, due bei pargoli in salute, settimana bianca a Cortina e quant’altro, oh, ce ne fosse uno contento, macchè! Proprio quelli sono i più tristi di tutti! Siete davvero strani voi umani: avete una inspiegabile allergia alla soddisfazione, siete dei sempretristi incurabili. E rendete la nostra professione un inferno impossibile.

“Ma come fate?”

“Questo è complicato da spiegare ad un umano. Dunque, si filtra (non con i polmoni, ma con il cuore) tutta la biosfera circostante, si perché la felicità è un etere vaporoso di ipermateria, ha le sue ipermolecole come tutte le sostanze pure, ma bisogna stare nel raggio di 10 metri, altrimenti si rovinano, e mediante la concentrazione ipospemica dei criptogrammi monomeri della contentezza, la gravitiamo dalle anime dei soggetti felici ai nostri ectocontenitori, e poi concentrata in microglobulosfere con uno starnuto  iperdimensionale la spediamo al collettore dell’organizzazione più vicino nello spazio parallelo.  Semplice no?”

“D’accordo, accumulate felicità nella vostra banca. Ma per fare cosa?”

“O bella, ma per renderla a disposizione delle fate, ovvio! Niente fate, niente fiabe. Niente fiabe, niente mondo parallelo. E senza il nostro mondo parallelo nemmeno il vostro esisterebbe. Non avreste mai la forza di esistere senza la speranza di una fiaba! Cos’è, se non che una fiaba, la vita stessa? Niente fiabe, niente universo fisico, niente relatività generale, niente galassie, buchi neri, atomi, stelle, albe, tramonti, colori, eclissi, quark, neutrini, legge di gravità universale, elettromagnetismo, molecole, tempo, spazio, niente di niente, perché l’universo stesso altro non è che fiaba. Leggenda, miracolo, sogno: l’universo è una immensa fiaba non ancora finita di scrivere, nulla più.”

“Non capisco. Che c’entrano le fate?”

“Scusi, ma lei come fa a scrivere una fiaba? Un qualche miracolo benigno vorrà pure mettercelo di mezzo, no? Se no che fiaba è? S’immagina Cenerentola senza la zucca trasformata in carrozza, o Biancaneve senza il bacio del principe che spezza l’incantesimo, o i quarant’anni di malvagio potere democristiano senza tangentopoli (una bella fiaba anche quella!), Aladino senza il genio dei desideri, l’impero Fininvest senza l’incriminazione di Berlusconi… e metterci quel pizzico di miracolo buono è appunto il mestiere delle fate, che altro non fanno che dispensare felicità aggratis, secondo il loro capriccio, a questo o a quel personaggio. Quando una storia ha un supplemento di felicità aggiunta da una dolce fatina, allora è una fiaba. Il resto non è che storia, banale quotidiano, cronaca. Ogni fiaba ha il suo miracolo felice, il suo capriccio di fata!

Ma neanche le fate, ahimè, possono fabbricare la felicità, nossignori. Nessuno la possiede, nessuno la genera, nessuno la distrugge. Una quantità assolutamente costante di felicità allo stato puro circola nell’universo, ed in verità ha una ectomassa in tutto pari alla tristezza universale totale.  I due principi si equivalgono esattamente, fino all’ultimo ectopicogrammo. E circolano nel mondo, perché in verità non si fermano mai, e tutte le creature ne assaggiano un poco, e nessuna creatura può trattenerne una sola ectomolecola per sé. Impossibile imbrigliare o trattenere la felicità! Puoi solo rimetterla in circolo (con un sorriso, con uno sguardo degli occhi, con una parola dolce) ed aspettare la prossima. Avrà notato, quando sorride, come la felicità circola e si trasmette agli altri, immagino. Così pure la tristezza. Ma la tristezza non serve alle fiabe, e noi la lasciamo tutta agli uomini che ne son golosi matti.

A noi serve catturare la felicità. E la rubiamo agli uomini, ai loro momenti lieti, per accatastarne quanto basta alle fate per fare i loro capricciosi miracoli a giro per le fiabe di mezzo mondo, e così sempre nuove fiabe garantiscono la sopravvivenza dell’universo.

Ma da dove crede che le fate tirino fuori ad ogni miracolo tutta questa felicità supplementare? Dalla nostra banca, ovvio!

Noi, folletti e ladri di felicità, siamo al servizio delle fate. E’ la banca che finanzia la bontà delle forze benevole, che eroga quella felicità che poi le fate dispensano come loro piace. E guardi che sono esigenti le fate! Mica fanno prodigi qualsiasi, minimo minimo rospi deformi che diventan principi, oppure servette sfruttate dalle sorellastre rifatte regine, e regni e eredi e ricchezze e onori, tutto così, dal nulla.

Ma lei ha una vaga idea di quanta felicità aggiunta ci vuole per fare di un rospo, di una bestiaccia infelice, lo sposo principesco bellissimo e ricchissimo di una bella e soave superbonazza con scarpine di cristallo? Ettolitri ed ettolitri di felicità, barili a millanta e millanta (si perché la felicità, quando viene concentrata, diviene liquida, per via della pressione), e loro, i rospi-principi, i personaggi delle fiabe, c’affogano nella felicità, ci galleggiano sopra, ci nuotano dentro, ne sperperano fiumi!

E lei lo sa quanta fatica mi costa trovare in un giorno anche una sola gocciolina di felicità, distillarla dall’amore di due giovani amanti, catturarla al volo prima che le ectomolecole evaporino con l’alito dell’ultimo bacio, o si disperdano nel languore di un sorriso sdolcinato, mettere la preziosa goccia nell’apposito contenitore globulosfera ed inviarla nella dimensione parallela, dove vengono raccolte goccioline dopo goccioline al prezzo di migliaia e migliaia di appostamenti, furtarelli, scippi volanti, colpi andati a vuoto, cacce inconcludenti e frustrazioni di ogni tipo. Ed ogni fata che ti arriva anche dalla fiaba più scalcinata minimo minimo te  ne porta via due cisterne!  Un destino infame!”

Io giuro non ci capivo più nulla! Che cosa mi diceva quella assurda creatura in vestiti borghesi? La felicità umana depredata per qualche rospo fatto principe, per qualche mero personaggio delle fiabe che poi non esiste neanche, è solo fantasia scritta di poeta o di favoliere e…Ma non esistono i personaggi delle fiabe! Sono esseri inventati di sana pianta, non hanno una loro esistenza, non…

“Non pensi questo – disse – il mondo parallelo è reale quanto questo. Anche l’uomo non è che un personaggio nella vita. Lei non è più vero di quanto lo sia il Principe o il Povero, Ali Babà con tutti i suoi ladroni o Alice nel paese delle meraviglie. Anche lei è un personaggio, ogni uomo è un personaggio, Qualcuno sta scrivendo anche la sua storia. L’Universo intero non è che Fiaba”.

Io allibivo. Rabbrividivo. Di stupore forse, ma soprattutto di rabbia. Non credevo ai meiei orecchi. Quasi credevo di essere precipitato io in una favola, anch’io in un qualche miraggio fantastico. “…Ma è pazzesco! Non è possibile! Ma io vi denuncio! …Voi…voi siete dei criminali, condannate l’umanità a non avere momenti felici, ci rubate la gioia, ecco cosa siete, degli esseri ignobili, abietti, altro che ladri, criminali peggio dei criminali! Rubate la felicità degli uomini così, solo per….per …per miracolare un personaggio che è solo un’invenzione, una favola, un…”

“Piano, piano amico mio! In primis, noi non rubiamo se non la felicità che voi disperdete spontaneamente. Noi catturiamo la vostra felicità quando questa già evapora, non prima, e sono gli uomini stessi, più che altri animali, che si ingegnano a disperderla nei modi più incredibili. La verità è che l’uomo conosce la felicità ma non sa conservarla dentro di sé. Più che ladri siamo dei cercatori, degli accalappiagioie, al massimo dei ladruncoli. Quanto a denunciare, lei non potrà denunciare proprio un bel nulla. Per scoprire me lei è dovuto entrare nella nostra dimensione parallela, altrimenti non mi avrebbe mai riconosciuto. Il suo sospetto che qualcuno rubasse la felicità era già quello un argomento da fiaba. Portarlo avanti è stato entrare nella favola, ed ora lei c’è dentro fino al collo, caro mio, al massimo potrà raccontare quello che sa in una fiaba, dalla quale lei non uscirà mai più”.

Sparì.

Poi più nulla.

Silenzio, e poi silenzio, e poi ancora silenzio.

Ed ora eccomi qui, eternamente prigioniero in questa fiaba che sarà la mia tomba, a raccontare una verità che a tutti voi non sembrerà che una favola. Tant’è. Mi consolo con le fate. C’è n’è una dai capelli rossi, superbonazza, di nome Deborah, che sa fare certi incantesimi che …

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