
Effettivamente sì, sono nato a Boston, ma strangodatore non so nemmeno cosa possa significare. Un gioco di parole, forse, ma io, con un titolo del genere, vi giuro, non c’entro niente! Lo definirei anzi una pacchianata irreparabile che, credetemi, per nulla mi s’addice, frutto della patologica ambizione dell’autore. Direi che è un suo grossolano quanto infelice tentativo di richiamare percorsi letterari ben più alti di questa misera novella, scimmiottando goffamente erudizioni e rimandi a dir poco banali, e che ben poteva risparmiarsi, se non altro per non addentrare il lettore nel parallelo, per lui disastroso, con il grande Manuel Vazquez Montalban. Quella sì che era una penna! Ah, che gioia deve essere, per un personaggio, muoversi tra le ariose trame di quella grande letteratura, dove la vicenda narrativa cammina senza fatica, anzi passeggia fra boulevard di situazioni che si susseguono, tra scorci di ramblas fitte di colpi di scena, in compagnia di personaggi interessanti dai complessi spessori psicologici! Che tristezza per me, invece, solo, rovistare tra i lordi bassifondi letterari di dilettanti incapaci, per racimolare randagio un avanzo di trama dai rifiuti, partorito dalla fantasia limitata di uno scrittore fallito! O, si badi bene, la mia recriminazione non nasce solo dall’odio sincero e incondizionato che, quale personaggio, riservo per tutti i moralisti in genere e per il mio autore in particolare; quanto dalla mia naturale inclinazione ad aborrire qualsivoglia mediocrità, ogni fallimento, ogni ambizione frustrata. La miseria mi da la nausea. Per me il successo è noblesse oblige, è l’elemento naturale dove nuota la mia esistenza, è la mia stessa identità.
Effettivamente sì, sono nato a Boston, ma mi sono laureato ad Harvard, Scienze Economiche e poi Giurisprudenza, con master in gestione delle Risorse Umane, Relazioni Sindacali, Sociologia dei Sistemi Produttivi. Un curriculum d’eccezione prima di approdare manager alla multinazionale europea dove tuttora lavoro, all’apice di una carriera sfolgorante che mi viene invidiata da tutti, ma questo non ce l’ha voluto scrivere nel titolo, quel miserabile dell’autore. Gli costava mettere un qualche riferimento al mio effettivo status, alla mia prodigiosa carriera universitaria e professionale, intitolando, che so, “il Manager che veniva da Boston”? o anche semplicemente “il Manager”? Si sarebbe magari potuto tentare qualcosa di musicale, un titolo jazz alla Gershwin, per esempio “un Americano a Milano”…
Perché effettivamente sì, sono nato a Boston, ma vivo da molti anni a Milano dove dirigo appunto l’ufficio Risorse Umane e Marketing di una importante multinazionale. In una parola mi occupo, tra le altre cose, di personale e assunzioni, sono il datore di lavoro per conto delle società della mia multinazionale. La quale, per raddoppiare i profitti, pretendeva di dimezzare i salari. Un obiettivo davvero ambizioso, dissi quel giorno al Consiglio di Amministrazione, ma… posso farcela. Dissi proprio così: posso farcela, in prima persona, e non possiamo farcela o riusciremo, plurale, ma posso, io e non altri “posso” farcela, volendo così chiaramente significare al Consiglio di Amministrazione che io e io soltanto possedevo la capacità di realizzare un simile obiettivo. Intorno a me si fece silenzio. Tutti voltarono lo sguardo sulla mia pretenziosa enunciazione.
- “E come pensa di farcela?” - chiese subito dopo il Presidente alzandosi gli occhialini sulla fronte per meglio scrutare in me la sorgente di tanta presunzione.
- “Posso farcela” balbettai un poco intimorito “se questo C.d.A. trasferisce i rami produttivi ed operativi in Italia”.
A quei tempi avevamo la sede e la logistica a Francoforte.
L’intero C.d.A. mi guardò inorridito. Poi il Presidente rantolò un furibondo:
- “In Italia?! Proprio ora che sono al governo i comunisti?!”
Eravamo infatti agli sgoccioli del 1998 e c’era da poco in carica il governo D’Alema.
- “Ex comunisti, prego” replicai …e giocai le mie carte.
- “Ma voi, signori - continuai - sapete cosa vuol dire ex? Cosa fa uno che cambia identità, che passa da una vecchia ad una nuova immagine di sé? Gli ex cercano di accreditarsi nella nuova identità che non gli era mai prima appartenuta, scagliandosi contro la loro identità vecchia con una ferocia di gran lunga superiore a quella di un normale avversario, ancorchè acerrimo, della identità precedente (identità che in un tempo troppo recente era stata la sua!). Proprio perché deve dimostrare quello che un avversario normale dimostrare non deve: la sua effettiva conversione, cioè di essere un ex. Non vedrete mangia-operai in Europa più virulenti di Massimo D’Alema. Questo uno come Aznar se lo beve. Khol gli fa un baffo, anzi un baffetto…anzi due! Questo sarà meglio della Teacher, credetemi, perché dovrà dimostrare da ex comunista di essere un neo liberista e perciò più liberista di un tradizionale liberista anti-comunista. L’Italia adesso è il posto giusto dove delocare i rami operativi aziendali. Sono pronto a vincere questa scommessa in nome dell’azienda: dimezzerò i salari e raddoppieremo i profitti”.
Essendo un vincente nato, mi fu facile persuadere il C.d.A. con il mio carisma (o forse fu la prospettiva del raddoppio degli utili ad allettarne gli appetiti) e da allora opero e lavoro qui in Brianza.
Mai profezia fu più facile! I fatti mi dettero subito ragione, accelerando la mia ascesa ai vertici della multinazionale. Con la sua prima finanziaria D’Alema inventò il lavoro interinale esteso anche ai livelli contrattuali più bassi e poco dopo l’istituto fu trasformato e ri-denominato co.co.co. Una pacchia simile Confindustria nemmeno se la sarebbe sognata. E invece le fu servita su un piatto d’argento, aggratis, proprio dall’ex comunista, senza sciopero ferire, col sindacato zitto zitto, fedele all’ex capo, accucciato imbelle ai suoi piedi a rodersi l’osso avvelenato che non senza perfidia era stato fatto cadere dalla tavola imbandita dell’economia italiana. Adesso non rimaneva che utilizzare co.co.co, e atipici al posto dei tradizionali operai e il gioco era fatto. Interinali di tutto il mondo, unitevi! Lasciate che gli atipici vengano a me! Ogno co.co.co è bello a mamma sua!
Me lo ricordo ancora il mio primo co.co.co. Che tenerezza! Era un ragazzino di vent’anni, la improvvisa malattia del padre lo aveva costretto a sospendere gli studi di filosofia e a procurarsi un lavoro, ed invece di un sia pur miserabile stipendio fisso come operaio a termine, potei offrirgli una defatigante collaborazione continuativa come addetto alla manutenzione, qualifica fittizia naturalmente, in realtà facchino, costretto a fare le stesse mansioni per il doppio delle ore e con la metà dello stipendio. Era una delizia vederlo sgobbare al carico/scarico di quintalate di merci, ai piazzali di scarico all’aperto, in pieno gennaio, con quel fisico mingherlino da intellettuale. Si ammalò dopo poche settimane, ed immediatamente rescindemmo il contratto. I contratti infatti sono la mia specialità. Offro i contratti peggiori, sempre più vantaggiosi per la azienda e svantaggiosi per gli operai, tutti perfettamente legali, o meglio sarebbe dire perfettamente legalizzati dalla riforma dalemiana, tutti con quelle decine di righe scritte piccole piccole che dicono che non hai diritto a niente, niente contributi previdenziali, niente diritti sugli orari, straordinari travestiti da flessibilità e sostanzialmente non retribuiti, eccetera. E poiché non era prevista tutela dei periodi di malattia, grazie a quei righi piccoli, rescindemmo il contratto senza tema di denuncia al Giudice del Lavoro, perché tutto ciò, adesso, in Italia, e solo in Italia, era perfettamente legale. In Cina, Bangladesh, Tunisia, Corea ci avrebbero fatto un culo come un paiolo: in Italia no. In Italia si poteva fare. Si mise a piangere, ricordo, lo studentello di filosofia malato, si mise a implorare, aveva bisogno di soldi per alcuni costosi farmaci per il genitore, all’inizio provò a venire a lavorare anche con la febbre, ma poi la bronchite degenerò in pleurite e dovette arrendersi. A che ti servono, povero sciocco, i farmaci se tanto tuo padre è terminale? Lascia che crepi e finisci di laurearti, no? Cosa credi di fare con poche centinaia di euro? Al massimo lenire un po’ di dolore! Se avessi studiato ad Harvard, invece che alla Bicocca di Milano, avresti saputo sviluppare una corretta analisi economica e giudicare come l’investimento non fosse supportabile da risultati soddisfacienti. Crepare per crepare, tuo padre può crepare senza farmaci. Infatti senza farmaci crepò. In più il figlio si è compromesso la salute e gli studi, e con essi ogni prospettiva di miglioramento sociale. Credo che tuttora versi in pessime condizioni fisiche, a girovagare fra un incarico e l’altro, co.co.co, co.co.pro, co.co.deh, un pollaio professionale sterile e senza uova. Per lui! Per la mia multinazionale, invece, succulente galline dalle uova d’oro!
E gallinelle, da noi, ne passano davvero tante! Commesse e commessine inserite a sei mesi nelle reti commerciali dei nostri megastore e fast food, veline delle offerte promozionali e dei saldi di fine stagione, che noi costringiamo naturalmente ad esibirsi seminude per accelerare le vendite nei diversi negozi di scarpe, autoricambi, lingerie, abbigliamento in franchising e macchinari industriali, insomma di qualsiasi merce trattata e commercializzata dalle aziende del gruppo. Poverette, restano da noi per lustri, un contratto semestrale dopo l’altro, praticamente stabili ma senza nessun, dico nessun diritto, in balia degli umori dei direttori dei negozi, i nostri superbi mastini, sotto perenne minaccia di mancato rinnovo contrattuale per il semestre successivo. Le più carine sono selezionate come segretarie personali dei dirigenti, sempre a sei mesi. Appena una si ammala o rimane in cinta, via, fuori, licenziata ed avanti un'altra, tanto il massimo della penale che dobbiamo risarcirgli è si e no due mesi di (infimo) stipendio, meno di una multa per eccesso di velocità! La maternità è un lusso che nell’economia contemporanea è riservato alle classi abbienti. Tanto la natalità viene agevolmente reintegrata da folle di immigrati extracomunitari, prolifici e fecondi, che garantiscono la manodopera delle prossime generazioni. Noi glielo diciamo sempre al momento dell’assunzione: niente maternità o siete fuori. Usate quindi le necessarie precauzioni, sia con i fidanzati, sia con quei maiali dei mastini, pardon dei direttori, che naturalmente esercitano il loro jus primae noctis da bravi valvassori dell’impero. Curioso mondo questo, dove un diritto medioevale mai esistito per davvero nel medioevo (secolo assai meno barbaro del nostro), viene istituito de facto al giorno d’oggi. Quando mi rimase incinta una delle mie segretarie, certa Martina (un gran bel pezzo di figliola, brava e intelligente, una segretaria magnifica) mi arrabbiai moltissimo. Probabilmente il figlio era mio, ma questo cosa c’entra? Licenziata in tronco. Piangeva disperata. Voleva un lavoro. Il suo lavoro. Magari anche un altro lavoro, purchè fosse un lavoro. Voleva quel briciolo di stipendio stabile per allevarsi il suo cucciolo. Oddio, a noi il lavoro non manca. La mia multinazionale gestisce, tra le varie cose, un proficuo ramo di servizi ecologici su scala internazionale, abbiamo cioè aziende del gruppo specializzate sull’intera filiera dei rifiuti, specializzate in particolare nell’occultamento dei rifiuti tossici nelle discariche della Mafia. Pensiamo a tutto noi. Ci consegnano i rifiuti e noi ci preoccupiamo di falsificarne l’origine, eludere la Finanza, corrompere gli amministratori locali, contattare le cosche e collocare i prodotti nelle apposite discariche ovvero termodistruggere illegalmente gli stessi negli inceneritori. Vantiamo una grande professionalità, abbiamo aziende leader, in continua espansione perché rifiuti tossici non ne mancano mai. Ciò comporta centinaia, anzi migliaia di posti di lavoro sicuri. E servono centinaia di segretarie affidabili in grado di gestire le delicatissime (false) pratiche burocratiche. Con la precarizzazione di circa il 95% di questi impieghi, raggiunta grazie alla mia abilità, il turn over delle assunzioni assume proporzioni immense. Altro che un posto di lavoro! Posso garantire in ogni momento assunzioni immediate per 100-150 posti giorno solo per il turn over precarizzato. Circa la metà avviene su indicazione delle cosche, in loco. Reperire l’altra metà è cruccio quotidiano miei collaboratori, io mi preoccupo che tutti insieme i 150 posti non costino più dell’equivalente di 50 stipendi (media UE). Figuriamoci se mi mancano posti disponibili! E voleva da me un lavoro per nostro figlio. Glielo ho negato, naturalmente. Per il suo bene. Posso offrire un lavoro da schiavo ad una persona che ho amato?
Mi sono chiesto spesso infatti che differenza possa esserci fra gli schiavi neri delle piantagioni ed i moderni schiavi neo-laureati globalizzati post-moderni: forse nessuna. Mi viene alla mente l’emblematico caso del Sepolto Vivo (così lo chiamiamo noi alla Direzione Risorse Umane e Marketing), uno che va ad auto-seppellirsi in discarica magari a soli ventiquattro anni, nel laboratorio chimico contraffazioni e certificazioni di compatibilità ambientale, giusto impiego per un ottimo laureato in chimica industriale, sedici ore al giorno a settecento euro mese, contratto atipico, zero contributi previdenziali, sulla base di un monte-ore massimo all’interno del quale le modalità di prestazione oraria sono concordate fra le parti, cioè imposte da me, quindi senza sabati ne domeniche, che la merda da interrare arriva tutti i giorni, e senza ferie estive natalizie o comandate che siano, perché anche in quei giorni la merda tossica deve essere rapidamente occultata. Ovviamente lui preferisce monetizzare le ferie non godute, e così se ne sta sempre lì, a certificare l’innocuità della merda tossica correttamente (si fa per dire) smaltita. A lui contributi niente, ma per il progetto del suo inserimento lavorativo la Unione Europea ci rimborsa i due terzi dello stipendio. E finito dopo 24 mesi il monte ore contrattuale, zac, si taglia il rapporto, naturalmente senza liquidazione, e si assume un altro neo-laureato. È tutto illegale nella discarica, meno che il contratto di lavoro, regolarmente registrato all’INPS e all’Ispettorato, tutto perfettamente nero su bianco, progetto pilota di primo inserimento su esperienze lavorative ad alta professionalità e incidenza formativa. Per il fatto che si fornisce una formazione sul campo al neo-laureato, un terzo del suo stipendio netto ci viene riconosciuto con legge regionale a titolo di spese formative sostenute dall’azienda. Essendo la discarica posta in luogo impervio e isolato, è costretto a dormire e mangiare in azienda. E ci deve riconoscere anche le spese di vitto e alloggio che decurtiamo dallo stipendio tabellare. Il risultato è che se ne sta appunto sepolto vivo, circondato da montagne di rifiuti tossici, in uno sgabuzzino parzialmente isolato all’interno della discarica composto di tre stanzette, una delle quali angolo cucina con branda letto (non penserete che l’azienda possa farsi carico di una qualche mobilia superflua: se vuole il televisore, se lo compri lui!); una con i macchinari per le analisi chimiche; la terza minuscola con un cessetto maleodorante e senza fosse biologiche. Ovvio: che senso avrebbero delle fosse biologiche in una discarica di rifiuti tossici? Bisogna tagliare le spese inutili! Finite le sedici ore, se ti viene voglia di prendere un po’ d’aria, puoi sempre farti una romantica passeggiata fra canyon di cadmio e paludi di diossine, ma le esalazioni sono altamente tossiche, così finisci per non uscire più dallo sgabuzzino. Ecco perchè mi sono chiesto se non sarebbe stato meglio per un Sepolto Vivo essere schiavo in una piantagione di cotone. Intanto l’impiego sarebbe fisso, mentre lui dopo 24 mesi è sulla strada e non ha nemmeno i 700 euro da spedire a casa ai suoi figli piccoli a carico (un po’ di pathos familiare non manca mai fra gli atipici, sono così romantici!). E poi avrebbe lavorato meno ore e all’aperto, in ambiente sano, in alloggi migliori, magari con la televisione, e a garantire la pappa dei figli ci avrebbe pensato lo schiavista. Che li avrebbe allevati come schiavi, certo, ma a spese dell’azienda. Invece lui dovrà allevare due futuri schiavi a spese sua. Ma la cosa incredibile del Sepolto Vivo è che mentre lo schiavo della piantagione alla prima occasione, potendo, scappava verso la libertà, lui volontariamente e spontaneamente si consegna alla sua schiavitù, implorando anzi l’azienda affinché la sua schiavitù possa durare oltre i 24 mesi pattuiti, a tempo indeterminato, per garantirsi quei 700 euro dei quali non avrà più certezza mai, ma siccome i contributi UE arrivano solo per i primi 24 mesi, a 24 mesi e un giorno via, a casa, e avanti un altro schiavo deportato dalla facoltà partenopea di Chimica. Altrimenti il costo del lavoro lievita e l’azienda non ci rientra più.
Così va la new economy! Se questo vi suscita ancora oggi una qualche residua indignazione, vi dico con franchezza: siete out, siete vecchi, appartenete al secolo trascorso, ad un millennio che non c’è più, siete coscienze fossili ormai estinte che sopravvivono solo in poche nicchie ecologiche di dinosauri retrò, isole giurassiche di matusalemme etici, sopravvissuti per sbaglio dentro una realtà virtuale, dentro sogni collettivi immaginari, allattati da ideologie sterili, storiche bugie infeconde, tutte miseramente fallite una dietro l’altra, nutriti di sogni antieconomici ed improduttivi che mai servirono al progresso dell’umanità. Siete di quelli di libertà fraternità eguaglianza, o peggio ancora solidarietà e giustizia sociale? Siete di quelli che onorano la parola data, che osservano leggi e contratti, che rispettano la vita e la dignità della persona umana? Allora sicuramente siete anche poveri. Ma cos’è mai il rispetto della dignità umana? Forse che la miseria è dignitosa? Che significa solidarietà? È solidale magari la fame? Cum mortuis in lingua mortua! Questa roba non esiste più, è passata per sempre, defunta, seppellita e decomposta, qua e là giusto qualche scheletro si è fossilizzato per i paleontologi, e quel fossile siete voi. Fossili sono i vostri sogni, le vostre categorie morali, i vostri valori. Altri sono i valori che scrivono la storia! Valori espressi in cifre, generalmente in dollari. Milioni di dollari, provenienti dai profitti realizzati in tutto il globo da sinceri speculatori senza scrupoli consapevoli della loro vocazione: produrre ricchezza e produrla per se. Perché una ricchezza condivisa è solo una miseria moltiplicata. Nel mondo contemporaneo, quello vero, quello reale di tutti i giorni, il profitto di pochi vale bene lo sterminio di molti. E nessuno più avverte la sopraffazione dei più deboli come un sopruso, ma come una necessità, ammissibile, ineluttabile, e quindi giusta. Nessuna indignazione davanti alla sopraffazione, semmai una sua lucida e scientifica programmazione. Ciò che ieri suscitava sdegno, oggi suscita interesse, si impone a tutti come modello comportamentale e tutti vi si uniformano. La sopraffazione dei deboli è ormai materia della scuola dell’obbligo, se ne studiano le forme e le tecniche fin dalle elementari, insieme ai verbi ed alle tabelline. Di che vi stupite! Lo hanno capito anche le vittime, gli sfruttati, gli sconfitti, le immense masse degli emarginati, che liberamente votano sempre e solo i partiti degli sfruttatori. Gli sfruttatori sono una ristretta elite, ma i loro partiti sono partiti di massa.
Ad uno che ha fame, non dare da mangiare, regalagli una zappa. Se la tirerà inevitabilmente sui piedi ed otterrai un affamato storpio. E cosa non si adattano a fare gli storpi affamati! Sono loro lo strumento più flessibile del mercato del lavoro. Mi ci volle un po’ di tempo per scoprirlo, non ci avevo mai pensato prima: libertà di impresa! Ecco quello che ci vuole! Gli sfruttati si sentono meglio se si credono imprenditori. Fanno enormi sacrifici in più rispetto ad un normale dipendente atipico, perché credono che siano sacrifici per la propria azienda, fatti per un proprio futuro vantaggio. E invece sono i più sfruttati, perché non ci si improvvisa contadini e non tutti sanno come arare un campo, figuriamoci dirigere una attività economica, per quanto piccola. Il disastro è garantito in partenza. E il meccanismo è semplice. Viene il normale disperato in cerca di lavoro, giovane, volenteroso, preparato, fiducioso nel futuro e nelle proprie capacità. Gli si dice che lavoro, purtroppo, non ce n’è. Cioè, che c’è e non c’è. Che ci sarebbe ma. E quello chiede, speranzoso: “ma?...” Ci sarebbero prospettive, ma occorre volontà, voglia di mettersi in gioco, ragazzo mio, bisogna credere in questa economia. Perché vuoi fare il dipendente quando puoi essere un nostro socio? Abbiamo bisogno di nuove figure imprenditoriali, generose, capaci, proprio come te. E quello: “come me?!...” A questo punto il gioco è fatto. “Ecco, noi mettiamo il più, il capitale iniziale, comprendiamo che non puoi metterlo tu, magari tu potresti partecipare inizialmente con una piccola percentuale sociale, un 10-20%, questo non è un problema, ma in cambio tu dovrai mettere le tue energie, le tue capacità, diventare socio lavoratore…” Si assegna così un segmento della attività della grande azienda ad una microsocietà formata dalla stessa azienda e da uno, due, massimo tre soci privati, giovani, volenterosi e disperati. Allo stesso modo si assegnano migliaia di segmenti a migliaia di fessacchiotti neo-soci in altrettante microsocietà. Il ricambio dell’intero sistema avviene in media ogni uno o due anni, con nuove micro-società che subentrano alle precedenti negli stessi segmenti, e con nuovi soci da stritolare. Che crederanno tutti di essere imprenditori, in franchising. Potranno produrre esclusivamente quel prodotto o quel servizio nel modo e nei tempi imposti da noi, ogni segmento coerente al progetto produttivo globale, non potranno fare nessun altra attività (franchising, che parola magica!). Imprenditori di se stessi, soci lavoratori e prestatori d’opera. Questi lavoreranno come dannati, veri demoni produttivi, senza limiti di orario settimanale, convinti che dopo qualche anno di gavetta potranno godersi un futuro migliore, ed investiranno tutto per questo progetto. Perché ovviamente viene loro proposto un piccolo investimento iniziale. E questi vendono tutto quello che hanno, o meglio che non hanno, e allora si vedono i loro genitori vendere la casa paterna, e la zia vendere la macchina usata, e le sorelle impegnare perfino l’abito da sposa ed nonni i gioielli di famiglia pur di mettere in mano al neo-socio un capitale iniziale con il quale aderire alla società. In questa società il neo-socio non avrà orari, ci si dedicherà giorno e notte, sgobberà e terrà la contabilità, responsabilizzato dall’aver rischiato il patrimonio dell’intero parentado, farà magari otto/dieci ore di lavoro materiale e poi altre quattro/sei di ragioniere, commercialista di se stesso, lavorerà per Natale e per Pasqua, non conoscerà vacanza, curerà le fatture e le relazioni con i fornitori, farà tutto lui organizzandosi il lavoro e mai e poi mai andrà a recriminare a un sindacato perché è la sua azienda! Un meccanismo perfetto. Al principio non volevo crederci nemmeno io. Non pensavo che un ragazzo d’oggi, in Italia, avesse la preparazione non solo per essere prestatore d’opera, ma anche per organizzarsi contabilmente e commercialmente il lavoro. Invece ho dovuto ricredermi. Anche l’ultimo dei figli dell’operaio parla due lingue e ha tre diplomi, e almeno uno in ragioneria o commercio. Quelli che davvero non sono in grado di gestire la contabilità aziendale, si appoggiano a sorelle, fidanzate, cugini, che lo san fare (o possono imparare a farlo in breve tempo) e risolvono ugualmente. In ogni caso la microsocietà non paga un solo euro a chi disbriga indefessamente tutto il lavoro contabile e commerciale, sorella o cugino che sia. Per la verità non paga nemmeno il prestatore d’opera. Ma tanto è un socio, parteciperà agli utili. Gli utili naturalmente non ci saranno mai, perché prima si deve garantire dalla rimessa degli utili il capitale sociale scoperto e nominalmente anticipato dalla mia multinazionale. Per farla breve, quello per due anni sgobberà come un cane, meglio molto meglio di un normale operaio, in una attività sostanzialmente autofinanziata, dalla quale non riceverà niente, rimettendoci la casa paterna e i gioielli di famiglia, per una attività che sistematicamente non decollerà e sarà rilevata al termine, per evitare il fallimento, dal socio a capitale maggiore (la mia società) nonostante che la mia società, di fatto, non abbia investito un euro vero, perché si era garantita con un prestito di una sua stessa banca rimborsato dalla microsocietà del malcapitato a comodi tassi d’interesse. Non è magnifico? Franchising! Si può fare tutto, in franchising: vendere birra, fabbricare suole per le scarpe, consegnare tappi di bottiglia prodotti in Ucraina, rilegare libri, commercializzare pneumatici, aprire negozietti di abbigliamento dove si vendono capi prodotti in franchising da altri giovani soci imprenditori. Ogni segmento di una filiera produttiva può essere dato in franchising. Il che garantisce alla mia multinazionale (cioè a me) il pieno controllo del prodotto e dei costi, assicurando manodopera gratuita e volontaria in autosfruttamento che si fa carico anche dell’investimento iniziale con capitale a proprio rischio, e una volta spolpato il fesso, avanti un altro e così via. Profitti moltiplicati per tre. Le due opere di misericordia della nuova economia: diffamare gli affamati e rottamare gli storpi! Negli anni novanta sarebbe stata percepita come la battuta di un comico: oggi non fa ridere nessuno ed è corretta prassi di mercato. Se avete riso amaramente alla battuta, siete estinti. O lo sarete presto, appena vi scopre la D.i.g.o.s., siatene certi. Quanto alla rottamazione sociale degli storpi, ci pensa il Ministero del Welfare.
Ma non sono uno strangodatore. Piuttosto sono un mago della speranza. Accendo speranze occupazionali là dove non c’è una sola possibilità di impiego stabile. Io compio miracoli, altro che omicidi. Quando la sera torna in famiglia un giovane che ha appena strappato da me un co.co.pro e dice orgoglioso ai suoi genitori “ho finalmente trovato lavoro!”, in quella casa si festeggia, si stappa lo spumante, si canta e si balla, perché il ragazzo o la ragazza, dopo anni di disoccupazione senza speranza, finalmente ha un lavoro, magari brutto, a tempo, sottopagato, ma pur sempre un lavoro! E se sarà capace come sicuramente lo è (si pensa quella sera in quella famiglia), si farà valere, sarà apprezzato, farà carriera, trasformerà il co.co.pro in un impiego stabile e non sarà mai più a carico dei genitori pensionati, potrà comprarsi la macchina nuova e forse sposarsi in una casa in affitto. Solo io so che se sarà capace, come sicuramente lo è, sarà ugualmente stritolato e spolpato a fini di profitto e poi ricacciato in un inferno di precariato senza fine. Io lo so. Ma non glielo dico. Gli lascio godere quella sera la loro festa. Perché ho dei sentimenti, io! ho un cuore! …Il suo. Strappato vivo dal petto del ragazzo con la forza legale delle mie mani, ottenuto grazie ai contratti atipici, con fatica, a volte dopo una defatigante lotta contro la sua residua dignità, che spesso nemmeno anni di disoccupazione cronica riescono a sopire. Una dignità feroce, che lotta allo spasmo prima di essere vinta e rassegnarsi a un precariato, che si ribella contorcendosi quando gli affondo i miei artigli di manager nel petto per essere strappata del cuore, ancora pulsante, ma finalmente vinto e pronto ad essere consegnato alla mia società multinazionale per essere spremuto e trasformato in dollari. Che dei cuori di questa sventurata generazione solo si ciba la new economy!